Un tipo grassoccio e barbuto indossa una maglietta blu che sembra una divisa e agita una folla di uomini che la divisa la portano ogni giorno, con più o meno merito e con più o meno onore. Parla, si lascia andare a invettive razziste e omofobe, contrappone le motivazioni di una determinata categoria di lavoratori a dei diritti sacrosanti che non andrebbero nemmeno tirati in ballo. Si scaglia contro gay e migranti, definisce questi ultimi con l’etichetta di “clandestini”. Sono tutti un fascio, per lui. D’altra parte questa parola, “fascio”, a lui piace tanto. E piace anche a chi lo ascolta e applaude. Perché non sono solo i fanatici in verde a sostenere quel tizio in maglietta blu, ma anche quelli che di solito usano vestire di nero e alzano un braccio, così, tanto per ricordarci quale storia infame abbia l’Italia. Purtroppo spesso si trovano dentro i corpi di polizia, che farebbero bene a depurarsi da tali presenze. Ma questa è una questione ormai antica.

Di sicuro, è proprio a questi nostalgici rifiutati dalla Storia che il nostro uomo rotondo e barbuto si rivolge. Ha bisogno di loro, a tal punto che è pronto a dire qualsiasi panzana, tanto sa che, nel mucchio di voci e ignoranza del branco, nessuno alzerà la mano, nessuno griderà che il re (è un modo di dire, non si monti la testa) è nudo. Lo senti parlare di onore, rispetto, disciplina, convivenza, lo ascolti ciarlare di valori, lui che diserta i luoghi istituzionali che gli pagano lo stipendio, lui che del rispetto non ha concezione alcuna, lui che fomenta odio e violenza ogni volta che apre bocca. Il solito copione, la consueta dose di qualunquismo data in pasto alla grettezza crudele e alla malafede di un popolo che ha imparato che qualsiasi minima conquista personale debba passare sul cadavere di chi già sta peggio.

Razzismo e maschilismo, ancora una volta, sono i grimaldelli usati per scassinare la porta del consenso, per guadagnarsi l’applauso di una platea di uomini da caserma. Ci è riuscito indossando una maglietta che ripropone quella della Polizia di Stato. Un’offesa per quei poliziotti (spero la maggioranza, ma non ne sono più tanto sicuro) che in certe parole e in certe logiche non si rivedono e che mai vorrebbero farsi rappresentare da uno così. Ma il colpo di scena, la sparata più grossa, fatta per ottenere i titoli dei giornali, è stata quella relativa alla volontà di ristabilire la leva obbligatoria, da lui considerata strumento per insegnare il rispetto per il prossimo e la convivenza. Da non crederci.

L’uomo barbuto con la maglietta della Polizia si trasforma, in pochi attimi, nel soldatino Salvini. Il soldato di ghisa. L’uomo che chiede il ritorno della Naja, l’obbligo di mettersi al servizio della patria, quella patria che lui e il partito di cui è leader hanno sempre disprezzato, a partire dalla Costituzione fino ad arrivare alla bandiera. Il milite ipocrita: ecco la nuova figura che è ufficialmente nata in un pomeriggio di ottobre, proprio nel cuore di quella Roma che i suoi commilitoni chiamano ladrona e insultano (tranne, ovviamente, quando dalla Capitale arrivano gli stipendi). Ferma obbligatoria, dunque. Ancora una volta. La stessa che per anni ha terrorizzato migliaia di ragazzi, condizionandone la vita, una spada di Damocle sulla testa di chiunque volesse fare qualcosa di diverso e più utile che essere costretto a perdere un anno tra le grinfie di caporali e superiori, tra modelli disciplinari distorti, maschilismo, atti di nonnismo e violenza.

Si può delirare su tante cose, in un paese democratico si può lasciare che un tribuno da due soldi affermi qualsiasi idiozia dinnanzi al gregge che bela festoso di fronte a lui, ma non si può scherzare sulle conquiste civili ottenute già troppo tardi, dove quel “troppo tardi” è costato dolore e vite spezzate. Al soldato Matteo andrebbe ricordato il nome di Emanuele Scieri, un ragazzo brillante, colto e preparato, un avvocato costretto a interrompere il suo lavoro, dopo anni di studi e sacrifici, per espletare il servizio militare. Un ragazzo onesto assassinato dentro una caserma della Folgore, la Gamerra di Pisa, nel 1999. Ucciso da un atto di nonnismo. Un omicidio senza responsabilità accertate, senza colpevoli identificati, grazie al muro di omertà e ai depistaggi che, dalla sera stessa in cui è accaduto il fatto, hanno trovato terreno fertile negli ambienti militari. Una vita spezzata e una famiglia riempita di dolore.

Emanuele Scieri è solo il caso più eclatante (e speriamo che la Commissione parlamentare di inchiesta sia finalmente istituita), ma di violenza e morte le caserme della leva obbligatoria sono state riempite per anni. Altro che rispetto per il prossimo e convivenza! Quelli sono valori che si insegnano nelle scuole, ma è un argomento troppo complesso per il nostro soldato Salvini. Gli suggerirei piuttosto di andare a parlare con la madre o il fratello di Emanuele o con i suoi amici (ma non lo farò, perché sono belle persone che non meritano incontri così sgradevoli) per sentire il dolore ancora vivo, la rabbia per la violenza, le reticenze, le tante altre storie emerse dopo la morte di questo giovane avvocato, una morte che sconvolse l’Italia e che ispirò un dibattito che fu determinante per l’abolizione della leva obbligatoria. Rimettere in discussione il tutto, anche solo a parole, per un vile spettacolo politico, significa uccidere due volte Emanuele. E questo non lo si può consentire. A nessuno.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org