Warren Buffett (un imprenditore ed economista statunitense, considerato il più grande “value investor” di sempre) disse una volta: “Qualcuno è seduto all’ombra di oggi perché qualcun altro ha piantato un albero molto tempo fa”. Bene. Sembra una banalità e neanche ci si pensa, ma credo che sia una lezione sulla quale meditare abbastanza, anche perché c’è il risvolto, e cioè: se tanta gente cuoce sotto il sole di oggi è perché qualcuno ha tagliato alberi molto (o poco) tempo fa. Benedetti allora i piantatori di alberi che ci offrono tanta frescura oggi, così possiamo goderci tante conquiste civili, sociali e di pensiero. Aggiungerei anche una benedizione speciale per quei piantatori di alberi dell’America del Sud i quali, negli anni ’60-‘80 del secolo scorso, hanno osato piantare gli alberi della teologia della Liberazione. Questi ultimi hanno prodotto il restringimento delle piantagioni di erbacce che opprimevano troppo la gente di quel continente con dittature mafiose tipiche del SudAmerica, impastate di droga, sangue e affarismi smisurati.

Boschi son diventati quegli alberi, una vera foresta, e hanno fruttificato persone indimenticabili come Heder Camara, Oscar Romero, Ernesto Cardenal, Camilo Torres. Uno di quei piantatori va ricordato ed è Gustavo Gutierrez, il quale diede dignità di pensiero sistematico a quella teologia “dal basso”. Il frutto più vistoso di questa piantagione è papa Francesco. Il sordo brontolio dei cani al potere economico e finanziario è la prova più evidente della bellezza intellettuale e cordiale di questo pontefice. Potranno ancora, come già fanno, provare a silenziarlo. Ma gli alberi hanno questo di caratteristico: crescono che neanche ci se ne accorge, lenti lenti, e alla fine svettano perché puntano al sole, amano la luce e non il crepuscolo delle ipocrisie di chi produce solo rumore mediatico e, purtroppo, tanta sofferenza.

Chiunque può sedersi alla loro ombra e godere della fresca semplicità che emanano. Non importa se poi li faranno santi o gli faranno i monumenti. Essi fanno ombra gratuitamente, perché ci credono nei viandanti che passano e si riposano sotto i rami della loro testimonianza fresca e rigenerante. C’è stato un giovane che purtroppo non ha trovato un cavolo di albero sotto cui proteggere, vivificare la sua voglia di sole, vita, futuro, una donna da amare, un lavoro dignitoso. Si chiamava Benson Sakey. Uno dei tanti cercatori di vita che fuggono da terre maledette dagli uomini con guerre, sfruttamento e fame. Veniva dalla Liberia. Dopo il solito viaggio su una carretta di mare arrivò a mettere piede sulla terra solida. Chissà come si sentì felice nel suo intimo profondo e orgoglioso di avercela fatta. Morì subito dopo. Era troppo sfinito. Aveva 21 anni.

Lo scorso 2 settembre abbiamo riesumato il suo corpo, composto le sue ossa dentro una piccola cassa e poggiate delicatamente nell’ossario del cimitero di Siracusa. Con me erano presenti altri ragazzi africani che vivono nella mia parrocchia. Tutto si è svolto con tanta ma tanta delicatezza, in silenzio. Gli operai che hanno scavato, preso le ossa e poi portate all’ossario sono stati umili, rispettosi, con la lentezza che usa una mamma che pian piano lava il suo neonato. È stato l’ultimo tributo di tenace amicizia che abbiamo potuto offrire a questo ragazzo. Di più non potevamo.

Benson Sakey, ti è stata violentata la vita, prima dalla guerra civile in Liberia e poi con la retrocessione a “clandestino – extracomunitario – profugo” e stronzate simili. Eri bello. Nella tua bara al centro della chiesa quel 10 agosto 2004 eri bello. Ricordo la vigilia del tuo funerale, era tardi ormai, quasi notte, la gente che avevo chiamato per salutarti era andata tutta via. Eravamo io e te. Ti ringrazio per la serenità che improvvisamente scese dentro il mio animo quando toccai la tua bara e ti chiesi la forza per riuscire a celebrare il tuo funerale l’indomani. Quasi una sorta di patto tra noi mi sembrò di leggere in quel tuo mezzo occhio rimasto aperto: quasi un ammiccamento, come a dirmi: “Ci stai?”. Sì, certo che ci sto. Ancora. Stai tranquillo. Li aiuterò sempre i fratelli della tua terra. Come potrei tradirti piccolo, grande Benson Sakey?

La lapide che stava sulla tua tomba ora è in chiesa e sarà uno degli elementi che comporrà “La Cappella della Memoria”, la memoria di tutte quelle persone morte in mare, nel deserto del Sahara, dentro il lager denominato Libia e sulle strade dell’Europa. Cercavano vita e come te hanno avuto morte. Ma deve nascere ancora chi con un dito vuole fermare il flusso della storia. E la tua morte, come quella di tanti, troppi altri come te, si chiama con un solo nome. Papa Francesco lo ha pronunciato davanti al mondo intero: “crimine contro l’umanità”. Notte dei diritti. Vilipendio della giustizia.

Lo so come la pensa la maggioranza schiacciante degli italiani, degli europei. Ma nella mia chiesa tu e i tuoi fratelli sarete sempre lì. Presenti. Un umile cero che starà sempre acceso giorno e notte ricorderà a tutti che anche voi siete gli alberi di quella foresta alla cui ombra un giorno speriamo si siederanno i nostri e vostri figli. E chi lo sa che, abbeverati da tante lacrime e tanto sangue innocente, quegli alberi saranno, sarete, una frescura nuova che farà respirare questo asmatico pianeta.

padre Carlo D’Antoni –ilmegafono.org