Voto di scambio, un vecchio e radicato costume italiano che fa sempre parlare di sé, anche se ormai senza troppo scandalo, senza eccessive indignazioni, quasi fosse un’abitudine accettata dalla gran parte dell’opinione pubblica e soprattutto dalla politica. L’ultimo caso è quello dei deputati regionali siciliani, Nino Dina (Udc) e Roberto Clemente (Pid – Cantiere Popolare), e di un ex onorevole, Franco Mineo (Grande Sud), rimasto però fuori dall’assemblea regionale alle scorse elezioni nonostante lo “sforzo” profuso. Insieme a loro, Giuseppe Bevilacqua (Pid – Cantiere Popolare), primo dei non eletti a Palermo alle elezioni comunali 2012. Secondo quanto emerge dall’inchiesta della procura distrettuale antimafia, condotta dai finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria, la campagna elettorale per le ultime regionali siciliane sarebbe stata caratterizzata da una corposa compravendita del consenso, un sistema corruttivo che in cambio di pacchetti di voti prometteva posti di lavoro, incarichi, soldi.

Bevilacqua sarebbe stato il motore di questo “mercato”, grazie ai suoi rapporti con diversi mafiosi capaci di controllare un certo numero di preferenze. Nella rete degli inquirenti è finito anche un ispettore della Guardia di Finanza, che avrebbe aiutato Bevilacqua in cambio di un favore personale. Il quadro che ne viene fuori è sempre lo stesso ed è desolante: una tavola imbandita con le pietanze necessarie a ingozzare e inquinare il risultato elettorale e attorno gli affamati dispensatori di favori che concorrono per accaparrarsi il piatto più sostanzioso. Corrotti e corruttori, insieme, dentro a una rete fatta di garanzie, strette di mano, posti di lavoro, denaro. Al di là delle responsabilità, che andranno ovviamente accertate, i protagonisti politici di questo ennesimo scandalo stupiscono ancor meno del reato di cui sono accusati.

Sono nomi che hanno già fatto parte di inchieste, informative, processi. Bevilacqua era stato già oggetto di un avviso di garanzia, poco più di un anno fa, per aver utilizzato, sempre nel corso della campagna elettorale per le comunali del 2012, prodotti alimentari destinati alle famiglie indigenti di Palermo: secondo l’accusa li regalava agli elettori in cambio del voto. Oppure li vendeva a prezzi convenienti, trasformando in merce commerciabile il cibo necessario alla carità. Franco Mineo, invece, ha avuto una condanna per peculato e falsa intestazione (avrebbe fatto da prestanome a un boss), mentre Roberto Clemente, nel corso di una indagine antimafia dei Carabinieri, è stato visto incontrarsi con un boss.

Ma quello che più di tutti si è trovato nel mezzo di mille bufere e indagini, uscendone sempre indenne (almeno fino ad ora) è Nino Dina, deputato Udc, cuffariano di ferro, cresciuto politicamente insieme all’ex governatore siciliano di cui è stato uno degli uomini ed amici più fidati. Una carriera lunga iniziata come sindaco di Vicari, la sua città, per poi proseguire all’assemblea regionale, con il sostegno di Cuffaro e con una mole impressionante di voti. Il suo nome è finito in numerose inchieste ed è stato fatto da diversi esponenti mafiosi di primo piano, come il presunto nuovo boss di Corleone (e fedelissimo di Totò Riina), Antonino Di Marco, il quale, durante le attività di pedinamento legate all’inchiesta “Grande Passo”, che lo scorso settembre portò al suo arresto e a quello di altre quattro persone, è stato visto entrare più volte nell’ufficio di segreteria politica del deputato. Lo stesso Di Marco avrebbe dichiarato di poter in qualsiasi momento parlare con Dina, cosa che l’esponente Udc aveva smentito categoricamente sospendendosi dal partito in attesa di chiarire la sua posizione.

La bufera più forte per Dina è stata però l’accusa di concorso esterno per la quale fu indagato nel 2009 e da cui uscì con un’archiviazione e dunque totalmente pulito. Nel 2013, invece, è stato condannato in appello dalla Corte dei Conti ad un maxi risarcimento (insieme ad altri 16 politici) per il cosiddetto “scandalo Sise”, ossia l’assunzione senza alcun bando pubblico di 1200 persone nel Sise, una partecipata della Croce Rossa e convenzionata con la Regione, e nel Ciapi, noto ente di formazione. Insomma, un uomo chiacchierato che però è riuscito a passare indenne da molte inchieste, almeno fino al momento in cui, qualche giorno fa, sono scattati gli arresti domiciliari. Il suo nome, peraltro, fu uno di quelli che più venne rinfacciato a Crocetta (e al Pd), il giorno dopo l’alleanza con l’Udc. L’attuale presidente della Regione, uno dei simboli dell’antimafia siciliana, rispose che Dina, al momento della sua candidatura nella coalizione Crocetta, aveva presentato “un certificato che attestava il suo proscioglimento”.

Una sorta di principio della legalità burocratica, in base al quale basta una certificazione a cancellare qualsiasi remora o dubbio, a sconsigliare una certa attenzione e sensibilità rispetto a chi si presenta nelle liste elettorali, soprattutto se all’interno della propria coalizione. Renzi e Crocetta non hanno avuto nulla da ridire su un personaggio che, ancora una volta, è finito dentro a un’inchiesta con un’accusa pesantissima. Lo hanno accettato nella propria coalizione (a un potente catalizzatore di voti si perdona tutto…) senza imbarazzo, senza un minimo sospetto sulla trasparenza di un rappresentante politico che non smette mai di riempirsi di ombre. L’ultima è quella del voto di scambio, un virus ineliminabile della cultura italiana. Cosa diranno adesso i creduloni del “certificato di proscioglimento”? Cosa diranno quelli che oggi, in altre regioni, continuano a dare ruoli e spazio agli impresentabili? Sicuramente risponderanno che ci vogliono le condanne definitive per bloccare una candidatura.

Ma abbiamo davvero bisogno di affidare alle sentenze giudiziarie la nostra morale e la buona politica? Non bastano i capi di accusa gravi e i fortissimi dubbi per chiudere le porte a certe candidature? Al di là del garantismo, della presunzione di innocenza e dei tre gradi di giudizio, non sarebbe meglio, quando si tratta di ruoli politici e di scranni istituzionali, essere più prudenti e non allearsi con chiunque, al di là della fedina penale? Le risposte sono tutte lì, nella debole complicità di una politica che, per la conquista e la detenzione del potere, è disposta ad abbassarsi, far passare la piena, e ricominciare come se niente fosse, con gli stessi identici schemi e vizi. Con i soliti miserabili sistemi e i soliti indecenti recidivi.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org