Il referendum che ha sancito il “Sì” ai matrimoni tra persone dello stesso sesso nella cattolicissima Irlanda è stato definito da molti come una vera rivoluzione, un evento di portata storica che cambierà le sorti del paese, con la speranza che l’eco possa diffondersi anche dove la dottrina cattolica è più radicata. Più che di rivoluzione, forse, sarebbe opportuno parlare di naturale risposta allo spirito della contemporaneità: lo scorso 22 maggio l’Irlanda ha inforcato gli occhiali cancellando la miopia di chi ancora riteneva i matrimoni omosessuali come un fattore troppo freak e fuori dagli schemi per poter essere accettato da un paese cattolico.

Con il 62,1% delle preferenze, il Sì ha vinto e il paese dei trifogli si appresta a garantire la parità di diritti anche alle coppie dello stesso sesso, forte di una legge sulle unioni civili già in vigore dal 2010. Una decisione accolta positivamente soprattutto dai giovani, ma anche dai genitori che desiderano una vita normale e senza discriminazioni per i propri figli omosessuali, in un paese in cui nel 1993 praticare “attività omosessuali” era ancora illegale. Hanno giocato un ruolo fondamentale le multinazionali della comunicazione internazionale quali Google e Twitter che, dalle loro sedi europee di Dublino, hanno fortemente incoraggiato il voto a favore, convogliando sulla stessa scia di pensiero il nutrito e attivissimo popolo del web e dei social network, una potenza che, come insegna la Primavera Araba non va di certo sottovalutata.

Altro ruolo chiave l’hanno giocato gli scandali che hanno attraversato la Chiesa irlandese negli ultimi anni: scempi come la pedofilia, ad esempio, un flagello che ha di colpo azzerato la fiducia dell’elettorato cattolico. Certo è che le tesi dei sostenitori del “No”, tra cui figuravano soprattutto vescovi e singoli esponenti politici, si mostravano palesemente anacronistiche e fuori dal tempo, ad eccezione di chi puntava sul dissenso di immigrati musulmani o ferventi cattolici provenienti da realtà in cui l’omosessualità è considerata ancora reato, o peggio ancora infermità.

“L’esito del referendum in Irlanda ci pone diversi interrogativi sulla nostra capacità di trasmettere i valori in cui crediamo, sulla nostra capacità nell’enunciarli o su quanto essi siano controcorrente rispetto alla mentalità comune”, così si è espresso al quotidiano Repubblica il cardinale Angelo Bagnasco, sottolineando la volontà della Chiesa italiana di aprirsi al dialogo con il mondo gay. Resta comunque ferma la convinzione di tutelare le unioni eterosessuali, evitando che le unioni tra persone dello stesso sesso possano essere equiparate: “Chiedere che si evitino indebite omologazioni non intacca i diritti individuali di nessuno”, aggiunge Bagnasco. Un’affermazione che conserva una contraddizione di sorta, dato che la stabilità e il riconoscimento di diritti coniugali dovrebbero essere garantiti a tutti i cittadini.

Alla Chiesa e al mondo cattolico più conservatore non resta che prendere atto della svolta irlandese, senza considerare ciò una sconfitta o uno schiaffo ai valori cristiani. Le unioni civili non hanno lo scopo di ledere in qualche modo la famiglia tradizionale, né di abbattere la moralità della Chiesa o la dottrina cattolica. Le unioni civili servono a sancire l’esistenza di una realtà che la libertà di pensiero, di espressione e la democrazia hanno spogliato dalla coltre di intolleranza dovuta al pregiudizio. È bene ricordarlo, perché gli adulti di domani possano lasciarsi alle spalle l’ipocrisia delle generazioni precedenti e non operare più distinzioni tra cittadini a seconda del loro orientamento sessuale.

Quella irlandese non è una rivoluzione, ma la legalizzazione di una realtà che vive da troppo tempo nel limbo dell’indefinito, dei “se” e dei “forse”. L’Italia non può stare a guardare.

Laura Olivazzi -ilmegafono.org