C’è chi pensa che le parole, soprattutto quelle non scritte, possano volare via, con leggerezza, come se nulla fosse, anche quando sono offensive, violente, superficiali, intrise di menzogne, prodotto di una pesante corruzione morale o di una bieca e squallida strategia. A pensarla così è soprattutto il mondo politico e in particolare chi quelle stesse parole, per fare in modo che non si disperdano, le stampa perfino su magliette orribili, sotto felpe altrettanto orribili, perfettamente abbinate al ghigno acidulo e gretto di chi le indossa. Evidentemente lo pensa anche la stampa, che non perde occasione per concedere, a certe parole e ai concetti che esse veicolano, spazio quotidiano su tutti i canali possibili, dai giornali alle tv, passando per il web, dove ogni cosa diviene lecita e totalmente incontrollabile. Di fronte al marketing del consenso o ai numeri del mercato editoriale, nessuno si pone il problema delle conseguenze del linguaggio utilizzato in ambito politico e mediatico.

Non è solo la vecchia questione del politically correct, del rispetto che si dovrebbe a ciascun gruppo umano, a ciascun individuo; è soprattutto una questione di futuro, di quale società intendiamo costruire, di inclusione ed esclusione, di convivenza sociale. Nelle scorse settimane, per un lavoro di inchiesta, mi sono trovato tra le campagne di Cassibile, frazione agricola a sud di Siracusa, tra i soliti casolari nei quali vivono, tra marzo e giugno, qualche centinaio di lavoratori stagionali immigrati, giunti da tutta Italia per impiegarsi nella raccolta di fragole e patate. Da anni mi reco lì per raccontare, ascoltare, chiacchierare con loro, conoscere i problemi che continuano a vivere in un Paese ostile, dove lo sfruttamento è selvaggio, dove per aumentare i profitti si taglia sui diritti, a maggior ragione se i lavoratori sono stranieri.

Anche quest’anno, dunque, sono andato in mezzo a loro, duecento migranti, la gran parte regolari e rifugiati politici, alcuni in Italia da tempo, perfino in possesso di una cittadinanza a cui sono connessi diritti che vengono ugualmente calpestati. Non soltanto da chi sfrutta, da chi considera un lavoratore straniero solo braccia da scegliere e tastare alle prime ore del mattino in mezzo alla strada, in base alla forza fisica, alla prestanza, all’obbedienza, come in una sorta di mercato del bestiame. La violenza dei caporali, l’infima considerazione dell’essere umano che diventa oggetto da utilizzare, a basso costo, al soldo di datori di lavoro italiani che si fingono onesti e nascondono nel silenzio le loro mani sporche, non è l’unica che questi migranti subiscono. Essi devono fare i conti anche con il razzismo della gente, di chi li vorrebbe invisibili al termine della loro giornata di lavoro, o con l’ottusità di alcune parti delle forze dell’ordine che li spaventano anche quando non c’è nulla da temere, li controllano come fossero delinquenti, come se fossero i carnefici e non le vittime di uno sfruttamento di cui tutti, istituzioni e cittadini, sono al corrente.

E poi devono fare i conti con quelle parole, quelle di cui si parlava all’inizio. Parole vomitate da personaggi politici osceni, ossessionati dall’immigrazione sulla quale scientificamente riversano qualsiasi colpa, configurando i migranti come la minaccia del millennio per un Paese che un secolo fa è migrato in massa, non per guerra ma per povertà, non per costrizione ma per scelta disperata, verso varie parti del mondo, subendo le stesse cose. Parole che vengono amplificate dai mass media, da giornalisti che se ne infischiano delle regole deontologiche e delle varie carte approvate, perché tanto nessuno, dai vertici dell’Ordine, interviene con sanzioni tese a ripristinare la correttezza dell’informazione. Né sospensioni, né radiazioni, in un’Italia nella quale abbiamo trasmissioni tv che riempiono l’opinione pubblica di bugie e stereotipi che sarebbero sgretolati in un attimo se solo si desse spazio ai dati, agli studi, alle testimonianze dirette invece che al leghista di turno, al singolo caso di cronaca spacciato per problema generale o etnico, a qualsiasi dichiarazione priva di fondamento e non verificata o alle paure artificiali che tanto comodo fanno a chi deve lucrare sulla pelle dei migranti.

Parole che, al contrario di quel che si pensa, stanno provocando ferite profonde, rabbia, disagio, diffidenza. Non volano via, restano. Per la prima volta in tanti anni, mi è capitato di incontrare ragazzi restii a parlare con i giornalisti, a lasciarsi intervistare, ad affidare a un registratore o a un taccuino le proprie opinioni. Quasi tutti avevano il terrore di essere ripresi da una telecamera nascosta e ho dovuto impiegare tempo per rassicurarli. Ci sono dovuto tornare più volte per avere la loro fiducia, per spiegare che in quei casolari ci sono andato tante volte negli anni, non solo da giornalista ma anche da attivista, da volontario. Alla fine si sono fidati dell’amicizia e qualcuno ha raccontato la propria storia, spiegandomi perché dei giornalisti non si fidano più. Una spiegazione ineccepibile. Contrariamente a quello che pensano molti miei colleghi, questi ragazzi hanno cultura, cervello, intelligenza, guardano e ascoltano telegiornali e trasmissioni, si collegano a internet, leggono, usano i social network, cioè si informano.

Si fanno un’idea di quello che l’Italia pensa di loro. Sentono le bugie, le volgarità, le logiche razziste nei loro confronti, si infuriano per trasmissioni costruite appositamente per non far emergere una verità diversa da quella che il conduttore, l’editore o il direttore hanno scelto di mostrare, probabilmente perché fa più audience e serve a far ingrassare chi politicamente ne ha bisogno. Se l’ordine dei giornalisti crede che i migranti siano soggetti poco informati, braccia da lavoro, senza una cultura o senza la capacità di comprendere anche le più sottili strategie editoriali e politiche è fuori strada. Tra i lavoratori stagionali di Cassibile (e di tutta Italia) ci sono rifugiati politici, gente arrivata qui anche da più di dieci anni, cittadini italiani ormai, perfino ragazzi cresciuti in Italia, con l’accento della città di residenza, ex lavoratori delle fabbriche del nord, padri di famiglia che si trovano in mezzo ai campi per necessità. Gente scolarizzata che avrebbe costituito la classe dirigente del proprio paese di origine se non fosse stata costretta a scappare. Persone preparate e dotate di cultura, che hanno condotto durissime battaglie politiche e di libertà.

Questo è il reale mondo dell’immigrazione, che invece sui media italiani viene rappresentato quotidianamente come un’accozzaglia di delinquenti, terroristi, ignoranti, ingenui, disinformati, sporchi e infetti. Un’immagine falsificata che le forze politiche diffondono tra i cittadini con il supporto potentissimo di tutta la stampa, anche quella che si considera immune da questo vizio e che poi però vomita titoli assurdi in prima pagina. L’assenza di sanzioni effettive lascia pensare che i vertici del giornalismo italiano non si preoccupano di quanto sta accadendo. Non riescono a capire quali conseguenze tutto ciò stia determinando, sia per quel che riguarda la maniera di svolgere questa professione sul campo, sia soprattutto per l’esclusione sociale prodotta.

A cosa servono i corsi di formazione, spesso anche ben fatti e con relatori bravi a illustrare la materia, se poi le sanzioni previste non arrivano? A cosa serve il controllo rigido sugli aspetti burocratici se poi gente come Del Debbio o Porro, giusto per citarne due, può permettersi di mentire strumentalmente o di costruire programmi ignobili che disinformano il popolo? E infine, perché parliamo tanto di regole se poi i giornalisti che conducono talk show danno spazio infinito e costante a Meloni (che tra l’altro rappresenta un partito minuscolo) e a Salvini, a fronte di un’assenza quasi totale di esponenti di forze di pari dimensione e associazioni che si battono per i diritti dei migranti e che potrebbero testimoniare una verità diversa?

Stiamo contribuendo alla costruzione di un mostro, l’Italia attuale, la cui economia sopravvive anche grazie al lavoro dei migranti, senza i quali saremmo già in default. Lo stiamo facendo senza tenerne conto, ma anzi additandoli come problema. Più andremo avanti così, meno tempo avremo per cambiare rotta. Meno tempo avremo per cancellare parole che, come lame appuntite, hanno lasciato il segno sulla pelle, sull’anima e sui pensieri di chi ne è stato ingiustamente il bersaglio.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org