In una nazione come la nostra, attraversata da una ignoranza perforante, è normale attendersi che l’idiozia venga spruzzata, a qualsiasi livello, sugli occhi imbambolati della gente. L’ultima sparata, che la stampa ha deciso di assecondare, è quella che riguarda la possibile presenza di terroristi dell’Is dentro i barconi di rifugiati che provano a giungere sulle nostre coste. A dirlo è un consigliere del governo di Tobruk, Abdul Basit Haroun, che riprende quanto già affermato un mese fa da un ambasciatore libico. Haroun lo ha dichiarato nel corso di un’intervista alla Bbc e la stampa italiana ha pensato bene di rilanciare, con titoloni a effetto, una notizia che ha come fonte il rappresentante di uno stato corrotto che da anni disprezza i migranti, li umilia, violenta, uccide, vende, traffica, lucra sulla loro pelle e, ricordiamolo, non aderisce ad alcuna convenzione internazionale in materia di diritti umani.

Questa è la Libia e i mass media lo sanno, così come lo sa quella politica che ci ha fatto affari e accordi per anni, ingrassando il regime di Gheddafi, salvo poi lasciarlo sgretolare nella speranza di mettere le mani sulle tante risorse del paese africano. Ma perché si dà spazio a quelle parole? Perché si costruiscono titoli e articoli che non approfondiscono, che tacciono sulla violenza che vari gruppi di esaltati in giro per la Libia compiono su uomini, donne e minori? A chi servono quelle parole? Forse sono utili a chi sta costruendo una spietata strategia comune (Italia ed Europa) per farci digerire l’idea folle di risolvere il fenomeno migratorio bombardando i barconi e lasciando che centinaia di migliaia di esseri umani rimangano in Libia, alla mercé di assassini spietati, e crepino nei porti, nelle città, negli stanzoni in cui vengono rinchiusi o tra le dune del deserto? C’è qualcosa che non torna, che fa male e disturba. 

Una questione anche di metodo. È rischioso dare credito alle parole di un qualsiasi esponente di una qualsiasi istituzione libica, per il semplice fatto che il loro è un gioco politico per ottenere qualcosa sulla pelle di quei migranti che considerano oggetti da distruggere in qualsiasi momento, cavie sulle quali sperimentare tutte le crudeltà umane oppure, al massimo, braccia da sfruttare. Dare enfasi alle parole di Haroun o dell’ambasciatore libico, senza contraddirle, è un po’ come dare credibilità e regalare le prime pagine a Riina nel caso dicesse che Di Matteo e i giudici del pool di Palermo in realtà sono “picciotti” al soldo di una fazione rivale. Riportare può essere un dovere, enfatizzare acriticamente è certamente un crimine. O una scelta politica precisa. In entrambi i casi, la stampa italiana non ne esce bene. E rinfocola l’incendio, alimentato da razzisti, leghisti e altre iene, che sta incenerendo il tessuto sociale, culturale e morale dell’Italia.

C’è poi una questione di verità, perché è da alfieri della menzogna pensare che un terrorista di un gruppo spietato e vigliacco possa rischiare di morire in mare, viaggiando in condizioni tremende (e forse molti colleghi dovrebbero informarsi meglio su quali siano le condizioni a bordo di un barcone), piuttosto che prendere un aereo ed arrivare in Europa come un qualsiasi turista. Basterebbe questo, sarebbe sufficiente ragionare un po’ ed essere più onesti, per chiudere la questione e derubricare una dichiarazione di siffatti personaggi a bufala o a sparata del giorno. E invece no, si è scelto di dare risalto, di creare lo stagno dentro cui i professionisti del torbido possono sguazzare, di aprire il recinto del porcile nel quale i maiali dell’odio possono scatenare i loro grugniti. A poco serve che Alfano abbia smentito, perché la notizia ormai è entrata nella coscienza collettiva come un virus vorace.

Di fronte a questo livello infimo e desolante, a chi costruisce queste notizie e le rende possibili non si può che rivolgere nuovamente l’invito a parlare con chi dalla Libia è appena arrivato. Parlare con ciascuno di loro, singolarmente e senza che qualcun altro possa ascoltare quel racconto ed esserne influenzato. Le storie sono sempre le stesse, con l’aggiunta di un caos nel paese africano che ha peggiorato ancor più (purtroppo l’orrore non conosce limiti) una situazione già atroce. Dovrebbero parlare, ad esempio, con un uomo eritreo appena sbarcato, un rifugiato che sta scrivendo un memoriale per raccontare tutto quello che il suo gruppo ha vissuto. Dalla partenza fino alla Libia e alla traversata.

L’odio razzista dei libici, la gente che si è sempre più specializzata nel vessare i migranti e spogliarli di qualsiasi avere, polizia e marina militare corrotte, i trafficanti che ti chiudono per un mese insieme a centinaia di persone dentro a uno stanzone di 6 metri per 24, senza farti mai uscire né permetterti di lavarti, le violenze sessuali sulle donne, molte delle quali rapite e costrette a sposare trafficanti o militari complici, gruppi di fondamentalisti che ti fermano e ti chiedono se sei cristiano e se rispondi sì ti tagliano la testa o ti fucilano, storie commoventi di musulmani che rispondono di essere cristiani per solidarietà con gli amici e compagni di viaggio, vite salvate per miracolo e solo perché considerate merci da proteggere, vite finite in un attimo davanti a un muro o in un cortile.

Cose che per i grandi giornali non fanno notizia evidentemente, se non quando possono essere funzionali a indurre qualche sorta di paura utile a chi su di essa costruisce consenso e strategie. La verità così rimane nascosta nell’assenza di approfondimento, nella scelta di un titolo bugiardo, nelle strategie spicciole di marketing, nel cinismo del mercato editoriale. Orwell diceva che “nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario”: è evidente che nel nostro tempo, l’inganno universale crea profitto, mentre la verità produce cultura e soprattutto dissenso, due elementi rivoluzionari che, in un’epoca di disumana conservazione, qualcuno tenta di abbattere e seppellire con qualsiasi mezzo.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org