I dati Istat sull’occupazione hanno svegliato ancora una volta l’Italia degli increduli, ossia quelli che prima, con un senso di ottusa fiducia, seguono la corrente degli annunci amplificati sui mezzi di comunicazione e poi si trovano colpiti in pieno da una realtà che solo loro non avevano mai visto. La disoccupazione è cresciuta, risalita al 12,7%, con 67mila disoccupati in più rispetto a febbraio 2014, un tasso di disoccupazione giovanile del 42,6% (in crescita di 1,3 punti) e 11mila giovani disoccupati in più al mese. Dati che hanno svegliato le deboli opposizioni politiche e perfino qualche italiano, che adesso timidamente accusa Renzi, rendendosi conto d’improvviso che le stime date dal governo poche settimane fa, relative a 79mila nuovi contratti a tempo indeterminato, erano un bluff.

Ma va? Davvero? Non so se sia più snervante la politica vuota e bugiarda di Renzi e dei suoi o l’idiozia di chi si stupisce dell’ovvietà e ha bisogno di dati per accendere la propria rabbia e il proprio cervello. Eppure basterebbe guardarsi attorno, uscire dalle case e lasciar perdere tastiere e televisori, per rendersi conto dello stato attuale di un Paese in agonia, dove non solo i giovani ma anche quelli meno giovani e già qualificati faticano a trovare un impiego, tra l’altro dopo anni di precariato durante i quali gli imprenditori hanno potuto facilmente aggirare qualsiasi legge senza alcun controllo. Già, gli imprenditori, quelli che il renzismo si coccola, quelli individuati come le vittime primarie della crisi.

Abbiamo fatto il pieno di retorica del dolore sui suicidi, sulle imprese chiuse, su una tassazione ingiusta, e così via. Ora, rispettando quel dolore di quei datori di lavoro onesti che avevano messo su, con coraggio e sacrificio, aziende piccole o medie che davano lavoro e che sono state fagocitate dalla crisi, dovremmo però smettere di pensare che tutto il mondo imprenditoriale sia uguale. Fuori dalla retorica c’è sempre la realtà, fatta di migliaia di furbi, di gente senza scrupoli, di evasori incalliti, di persone che per il proprio profitto passerebbero sopra anche ai propri affetti più cari. Basta guardare fuori dai monitor e dalle tv per accorgersi di quante imprese abbiano lucrato sulla pelle dei lavoratori, con l’abuso del progetto e delle forme precarie di contratto, con il lavoro nero, le buste paga fittizie, i ricatti, le assunzioni “politiche”, lo spregio delle condizioni di sicurezza.

Una prospettiva che Renzi e Confindustria hanno invece rovesciato, costruendo l’immagine stereotipata e generalizzata del lavoratore furbo, fannullone, piagnone, ingrato, ipertutelato. Il problema dell’economia italiana, danneggiata in primis dalla corruzione politica ed imprenditoriale, dalle mafie e dall’incapacità della classe dirigente italiana (soprattutto degli ultimi venti anni) di creare meccanismi virtuosi e riformare il mercato del lavoro a partire proprio da un equilibrio delle tutele, è dunque diventato lo Statuto dei lavoratori e, in particolare, l’articolo 18. Il lavoratore è stato nuovamente confinato all’ultimo scalino della scala produttiva, sia in termini di valore che di prerogative, mentre i sindacati sono stati identificati come il nemico numero uno da esporre alle forche di un’opinione pubblica già abbastanza infuriata con esso, in virtù di una serie di errori storici, cedimenti e partecipazioni indecenti ad aridi sistemi di potere politico. Peccato però che la prospettiva da cui parte l’accusa di Renzi e di Confindustria nei confronti dei sindacati sia completamente opposta.

Il premier e gli industriali criticano il loro arroccamento su posizioni difensive estremiste dei diritti e delle tutele dei lavoratori, i quali invece accusano i sindacati, a ragione, del contrario: ossia di aver dimenticato di difendere davvero il mondo del lavoro, di aver preferito compromessi e mescolamenti politici, di aver ignorato per lungo tempo milioni di precari non rientranti nelle classiche categorie sindacali, i quali non hanno mai avuto nemmeno la possibilità di una tutela. Detto ciò, la soluzione di Renzi e Poletti è stata quella di una riforma totalmente sbilanciata a vantaggio degli imprenditori, categoria a cui, tra l’altro, entrambi sono intimamente legati.

Il Jobs Act, che il popolo italiano e i fanatici renziani hanno accettato silenziosamente o appoggiato entusiasticamente (tra i renziani anche molti disoccupati o precari, talmente ottusi da applaudire chi li stava affossando), è stato presentato come l’elemento imprescindibile e fondamentale per la ripresa e per la fine di un dramma generazionale, quello della disoccupazione, che pone l’Italia molto indietro tra i paesi dell’Europa che conta. Qualcuno ha pensato persino che l’emigrazione interna, tornata da tempo a livelli da metà Novecento, potesse finalmente essere arginata, garantendo una rinascita dell’intero Paese. Come? Semplicemente dando carta bianca alle imprese e un bel coltellaccio da tenere stretto dalla parte del manico. Per convincere il popolo della bontà di tale scelta, i dati forniti poco dopo da Poletti e Renzi sulle tante nuove assunzioni a tempo indeterminato venivano spacciati (e generalmente creduti) quale segno tangibile della ripresa.

Purtroppo, come avevamo scritto su queste pagine, si trattava di una grande balla. Non c’era bisogno di aspettare l’Istat, né di essere chissà quali acuti osservatori, era ed è sufficiente vivere nella realtà, in quella di chi, negli anni, nel settore privato, ha condiviso con milioni di persone l’esperienza dei ripetuti contratti a progetto della durata di tre, sei o (i più fortunati) dodici mesi, dell’ansia per i continui, plurimi rinnovi, dei meccanismi per aggirare le leggi (ad esempio: “stai fermo quindici giorni o un mese che poi ti riassumo”). Adesso scompare il progetto e le aziende sono costrette ad assumere, o meglio, a trasformare i vecchi rapporti a progetto con i propri dipendenti (che scadono di solito a metà anno, a fine dicembre o a gennaio) in rapporti a tempo indeterminato, usufruendo immediatamente degli sgravi e con la serenità di mandare via il lavoratore (privo di tutele) in qualsiasi momento, senza nemmeno dover dimostrare la giusta causa, dato che sarà sufficiente una ragione economica.

Ecco spiegati i numeri propagandistici di Poletti e Renzi: si tratta quasi esclusivamente di stabilizzazioni, di passaggi amministrativi obbligatori per chi è già occupato, mentre per gli altri nulla. Solo annunci con richieste assurde nascoste dietro formule vuote e inglesismi insignificanti e inutili, nessun investimento concreto per promuovere occupazione, nessun ammortizzatore per chi si trova senza lavoro, nessun concreto incentivo per chi volesse mettersi in proprio, nessun alleggerimento burocratico per l’avviamento di un’attività, nessun meccanismo serio di controllo su chi sfrutta o aggira le leggi.

Solo propaganda e i consueti annunci portati avanti con un’arroganza che supera persino quella berlusconiana e che trova pochi e poco edificanti precedenti nella storia democratica italiana. I dati Istat, che molti guardano con sorpresa e che in qualcuno hanno prodotto uno shock, non dicono qualcosa di diverso da quella che è la realtà che molti di noi vivono ogni giorno sulla propria pelle. L’Istat ci ha solo suggerito di smetterla di vivere da increduli o da fanatici e di guardare il mondo reale. Che ci aspetta dentro casa o appena fuori dalla nostra porta. Ed è l’unica cosa che conta.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org