Disegno di legge sulla “Buona scuola”: così è stata chiamata la riforma proposta dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che si propone di “mettere fine alla piaga del precariato” nel settore dell’istruzione. Una definizione quanto meno presuntuosa in un Paese dove negli ultimi anni le riforme della scuola hanno prodotto un esercito di precari: circa 150 mila secondo le stime del governo. Nel disegno di legge sulla Buona scuola all’inizio i precari assunti dovevano essere 150 mila, ma poi sono diventati poco più 100.000. Approvato il 12 marzo scorso in Consiglio dei ministri, il ddl dovrebbe passare alle Camere entro fine maggio, perché sia possibile l’assunzione di migliaia di docenti a partire dal primo settembre. Ma per ora l’iter parlamentare della normativa è fermo e, in assenza della nuova legge, sarà possibile sostituire solo chi va in pensione.

Per questo e molti altri motivi i docenti e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario della scuola (noto come Ata) hanno annunciato una protesta generale dal 9 al 18 aprile. I dipendenti appartenenti ai cinque sindacati rappresentativi della scuola, Flc-Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals-Confsal e Gilda, manifesteranno il loro dissenso non partecipando a tutte le attività non obbligatorie.

Tra i provvedimenti che più hanno fatto infuriare i sindacati vi è quello che impedisce, di fatto, agli idonei dell’ultimo maxi-concorso per la scuola di essere assunti. Al primo concorso bandito per la scuola dal 1999, hanno partecipato nel 2012 oltre 100.000 persone, di cui 6.600 che, pur avendo superato le prove, erano in soprannumero rispetto ai posti disponibili. Ora quei docenti rischiano di essere esclusi da qualsiasi piano di assunzione. Il nuovo ddl prevede, infatti, che essi siano scavalcati da chi è in graduatoria (da anni), pur avendo studiato e superato un concorso. È la vecchia storia dei concorsi “ad hoc”, organizzati come spot elettorali da governi e amministrazioni locali per creare nuovi eserciti di “lavoratori in attesa”.

La protesta non riguarda però solo le assunzioni, giudicate insufficienti, ma anche il problema del rinnovo del contratto di categoria e gli strumenti previsti per rafforzare l’autonomia scolastica e modernizzare il sistema dell’istruzione primaria. Un esempio tra tanti: nel ddl si parla di Piano nazionale per la scuola digitale, ossia di potenziare le competenze informatiche degli studenti e gli strumenti didattici e di laboratorio (come computer, etc.) a loro disposizione. In assenza di un programma di stabilizzazione del personale Ata, che nel ddl non è previsto, tutto questo è impossibile. Negli ultimi anni, infatti, è significativamente aumentata la carenza di organico nei laboratori e allo stesso tempo sono state ridotte le risorse finanziarie a disposizione delle scuole per l’acquisto di strumenti didattici e laboratoriali.

Nonostante le risorse previste dal ddl, la spesa dell’Italia per l’istruzione resta al di sotto della media europea, per allinearsi alla quale occorrono notevoli investimenti. La legge proposta dal governo Renzi prevede che i privati possano sopperire agli investimenti pubblici attraverso elargizioni e crediti d’imposta, con un grosso rischio, però: quello di creare disuguaglianze tra gli istituti scolastici in contesti socio-economici differenti.

Insomma, ancora una volta, lo Stato tenta di ritirarsi dal terreno dell’istruzione, cedendo il passo ai privati che saranno liberi, nelle aree più abbienti del Paese, di finanziare e, forse anche influenzare, un’offerta scolastica ricca e differenziata. Se il ddl non sarà modificato, in altre zone “povere”, le scuole, in assenza di fondi privati, potrebbero rimanere prive di risorse, fatiscenti e quindi abbandonate.

Giorgia Lamaro -ilmegafono.org