“Lo Stato si lascia spingere dagli avvenimenti ad andare avanti, ma poi ha dentro di sé un richiamo della foresta che lo porta a non fare la lotta fino in fondo contro la mafia, perché non ha mai una classe dirigente all’altezza. Questo è il limite congenito della politica. La politica offre alla mafia i suoi cretini, non solo i suoi complici, e i complici e i cretini insieme sono una miscela da cui è impossibile difendersi”. Queste parole me le disse, nel 2012, Nando Dalla Chiesa, in occasione dell’intervista rilasciatami per la realizzazione di un libro sulle stragi del 1992 (“Dove Eravamo – Vent’anni dopo Capaci e via D’Amelio”, Caracò editore). Non le dimentico mai, soprattutto ogni volta che mi capita di osservare le vicende e le carriere di quei complici e di quei cretini che il professore ha posto saggiamente al centro della storia dei rapporti tra mafia e istituzioni (a tal proposito, è illuminante leggere il suo libro “La convergenza”, Melampo editore).

In queste ultime settimane, oltre alle consuete operazioni di polizia che hanno portato agli arresti, in varie parti d’Italia, da nord a sud, di amministratori, imprenditori, criminali che avevano edificato un sistema collusivo ben radicato, si è tornato a parlare di due grandi “complici” della storia italiana recente. Una complicità certificata da condanne definitive e dalla successiva detenzione in carcere, una rarità in un’Italia di ingiustizie e di incompiute, di normative inapplicate, salvacondotti e prescrizioni. Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro sono tornati a far notizia, questa volta però in una dimensione declinante, dove l’aura di potere e di gestione disinvolta dello stesso hanno lasciato spazio alla dura realtà dentro una cella.

Totò Cuffaro, dei due, è quello che meglio sta affrontando la situazione: studia, scrive e aspetta il termine della pena (sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato) previsto nel 2018. Un detenuto modello, mai una parola scomposta, atteggiamento positivo, lo stesso con cui ha reagito alla decisione dei giudici. Nessun urlo al complotto, nessuna accusa ai magistrati. Ha accettato tutto quanto e prosegue in quella direzione. Qualche giorno fa, infatti, ha rifiutato la richiesta di grazia che la madre novantenne ha presentato al Capo dello Stato. “Non accetterei alcuna concessione di grazia – ha dichiarato Cuffaro – non accetterei alcuna carità. […] Nelle condizioni in cui mi trovo, chiedo solo che mi vengano riconosciuti i miei diritti di detenuto e non la carità. Potrei accettare ed auspico, invece, un provvedimento di giustizia rivolto a tutti coloro che si trovano nelle mie medesime condizioni”.

Non c’è che dire, Cuffaro sta affrontando il carcere con grande dignità. Questo suo comportamento esemplare dietro le sbarre, però, fa risaltare ancora di più la sua pessima carriera politica, dove la collusione e il clientelismo sono stati le basi di una gestione del potere tesa a favorire gli amici degli amici, come la sentenza definitiva ha dimostrato. La dimensione umana del Cuffaro detenuto fa da contraltare alla spregiudicatezza politica che tanti danni ha prodotto alla regione siciliana, a vantaggio di chi quella regione prova a tenerla in scacco da decenni. Non stupirebbe se, alla fine della pena, l’ex governatore decidesse di tornare in politica. Né stupirebbe, proprio per il suo comportamento esemplare in carcere, se egli dovesse ottenere ancora consensi popolari. Forse, nella sua linea declinante, Cuffaro sta ancora ragionando politicamente, accettando una parentesi che potrebbe tornargli utile a riproporsi non più come “complice” o “cretino”, ma come colui che ha imparato a non sbagliare più e si è ripulito.

Di tutt’altro tenore è invece la vicenda di Marcello Dell’Utri, anche lui in carcere con pena a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Qui il livello è molto più alto, il comportamento criminoso molto più raffinato. Dell’Utri è accusato di essere il tramite, il punto di contatto tra mafia e politica in uno dei periodi più bui della storia italiana. Il suo atteggiamento è stato sempre ambiguo, durante e dopo il processo. Si è lasciato giudicare, mostrando serenità, mentre a mettere in dubbio l’accusa nei suoi confronti ci hanno pensato altri. Quindi, prima dell’ordine di arresto è fuggito in Libano, dove poi è stato trovato e fermato dalla polizia libanese. Dopo l’estradizione è finalmente entrato in carcere, a Parma, in quella struttura dove sono ospitati importanti capimafia.

Qualche giorno fa, il suo legale, ha raccontato di un Dell’Utri in condizioni di salute difficili, inappetente a tal punto da perdere 12 kg. Un’immagine che frantuma quella dell’uomo sicuro, dal sorriso beffardo e dallo sguardo eloquente, dalle battute gravi e significative sull’eroismo di Mangano e sul fatto che al suo posto egli forse non sarebbe riuscito a tacere. Il potere che si è mosso sulle sue gambe e tra le sue mani di “complice”, d’improvviso si scioglie nella miseria umana di chi è finito nelle maglie di uno Stato che aveva creduto di poter controllare e a cui pensava di poter sfuggire, prima attraverso la politica e poi attraverso la fuga.

Sono due storie diverse per livello e per modalità di reazione, ma simili per quel che riguarda il percorso degradante di un inquinamento del potere fin troppo sfacciato. Un potere nel quale si spera di trovare ancora un posticino. Forse è per questo che Dell’Utri non si decide a parlare, a raccontare tutto quel che sa, invece di rimanere in silenzio come fece il suo eroe Mangano, con il quale condivide evidentemente una buona dose di forza e di determinazione. O semplicemente la speranza di risalire sul trono da cui è stato scalzato.

Ad ogni modo, al di là della questione umana, dei diritti che ciascun detenuto, quindi anche i due ex parlamentari, devono vedersi riconosciuti, le notizie di questi ultimi giorni sembrano finalizzate a produrre un senso distorto di pietas, che non è quella umana (moralmente legittima e indiscutibile) ma quella politica (inaccettabile e oltraggiosa), che ha come totem, ad esempio, l’amore incondizionato della gente (l’avvocato di Dell’Utri dichiara che l’ex senatore riceve centinaia di lettere di solidarietà da tutta Italia). Una forzatura pericolosa, in un Paese che faticosamente e raramente riesce a sanzionare i “complici” e i “cretini”, ossia quel mondo politico che fa parte di un sistema criminale o converge verso il suo sviluppo e consolidamento.

La tutela dell’umanità di ciascuno non può e non deve trasformarsi nella de-penalizzazione pubblica delle loro malefatte. Dell’Utri e Cuffaro sono solo due casi evidenti, non gli unici, del malcostume di un Paese che, come ci mostrano le inchieste quasi ogni giorno, è immerso nella palude fangosa dell’intreccio mafia-politica-impresa. Ma le loro condanne e detenzioni sono anche due esempi, importanti, che mostrano che, quando lo Stato agisce davvero, nessuno, nemmeno il più potente, può restare impunito. Ed ecco allora che, in conclusione, mi tornano in mente nuovamente le parole, perfettamente adeguate e valide, che Dalla Chiesa aggiunse, durante quell’intervista: “Dopo avere descritto tutte le collusioni, le complicità, dato quasi la sensazione che non ci sia più nulla da fare, dico sempre che ‘quando lo Stato fa lo Stato per davvero, quando la società civile fa la società civile per davvero, non ce n’è per nessuno”. Ricordiamocelo sempre.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org