Da settimane le pagine di cronaca accolgono tristi reportage sulla condizione delle nostre periferie. La miseria, l’esclusione, l’ignoranza, la marginalità politico-economica creano situazioni di accesa conflittualità, tra occupanti e inquilini regolari, tra occupanti e forze di polizia, tra disperati e cosche del racket. Le linee di confine sono le più immediate, le più fallaci, le più incivili. Il 27 novembre, per la sera, alle 18, è convocata in Largo Giambellino la riunione del comitato di quartiere contro gli sfratti che imperversano in questo come in altre zone di Milano da circa due settimane. Acceso dalla voglia di conoscere il perché più vero di questi scontri, comincio una piccola inchiesta. La piazzetta, racchiusa tra le fronde degli alberi di un modesto giardino della periferia urbanizzata, è assiepata di persone: sono persone semplici, dai rom ai tossici, agli attivisti del centro sociale poco distante, ai romeni, agli etiopi, ai tunisini in cerca di un futuro che non si rende reperibile, ai compagni, consapevoli e determinati, del sindacato Unione degli Inquilini, che sventola in alto le sue bandiere.

Questo è il cuore pulsante del quartiere: nato come borgata contadina, viene assorbito dal poderoso sviluppo edilizio degli anni ’60, divenendo residenza del proletariato impiegato nelle industrie sorte lungo il Naviglio. Poi la crisi profonda, crisi economica e identitaria, che è seguita alla chiusura degli opifici degli anni ruggenti. Ora tutto gravita qui, nella piazzetta: c’è il parco, c’è la “casetta verde” – ossia uno spazio gestito da un’associazione, la “Punto e linea”, che mira a rimettere in piedi un tessuto umano esploso in infiniti frammenti muti l’uno all’altro – c’è la biblioteca comunale. Anche qui, dipendenti flessibili rendono il luogo un punto di incontro di bambini, stranieri, nonni; fanno da assistenti sociali, aiuto disbrigo-pratiche. La biblioteca è sempre piena; e il sig. Andrea parla di questa dimensione umana, non retribuita, come della “cosa davvero meravigliosa” del suo lavoro.

Iniziata la fanfara della Banda degli Ottoni a Scoppio, sempre presenti dove serve, il corteo si avvia, solo, senza accompagnamento di forze di polizia. Ci muoviamo tra le vie del Giambellino, quello del Cerutti Gino e di Giorgio Gaber, ma anche di Diego Abatantuono e di Renato Vallanzasca: via Odazio, via Giambellino, piazza Tirana, via Seregni, via degli Apuli, nuovamente Giambellino e poi il rientro alla piazzetta. In mezzo al corteo c’è Florin, romeno, ventisette anni, disoccupato, sposato, padre di due bambini. È da un anno e mezzo che vive in una casa popolare, da occupante, e teme ogni giorno di venir sgombrato. Chiedergli se lui, come noi, giovani candidati a quel 44% di disoccupazione, si sente cittadino europeo suscita una certa ilarità: perché in gran parte è questa la nuova Europa, da Berlino ad Atene, da Porto a Bucarest, passando per Milano.

C’è anche Sara che è etiope e rassegnata, e attorno a lei una bimba, Chiara, di sei anni, che saltella con tutta la gioia sua e quella che la mamma non ha più. Fino a settembre era a Firenze, con il marito; lavorava da badante alle dipendenze del suo proprietario di casa, pagando così il suo canone di locazione, in nero. Un giorno il locatore le fa sottoscrivere un contratto per regolarizzare la sua posizione, ma l’esito è ben diverso perché grazie ad esso fa emanare un provvedimento di sfratto per morosità che lei non può far altro che accettare supinamente. Senza casa, una bambina appena iscrittasi in prima elementare, perde la vicinanza del marito e si separa: lui va a Roma e lei invece, con la figlia, sale a Milano, dove trova inizialmente ospitalità grazie agli occupanti del Cantiere, Spazio di Mutuo Soccorso.

Fa avanti e indietro tra Milano e Firenze per trasportare vettovaglie e soprattutto consentire a Chiara il trasferimento di istituto. Poi percepisce un po’ dove tira il vento e raggiunge le case popolari del Giambellino e qui mira a stabilirsi: paga 800 euro a un galantuomo che non si farà mai più vedere. Dal 22 settembre occupa un appartamento che altrimenti resterebbe vuoto con lei fuori a guardarlo; e da allora non riesce a dormire perché ha paura. Come loro tanti altri e hanno le loro ragioni perché il quartiere nel solo mese di novembre è stato teatro di diversi interventi delle forze di polizia, volti a ottenere lo sfratto forzoso dagli immobili dell’Aler. Milano è in buona compagnia: anche Roma e Torino e Napoli e Palermo e così via fino a Nuoro sono, in misura più o meno mediaticamente rilevante, prese dalla morsa dei senzatetto, senza considerare l’enorme area “border-line”, di cui parleremo fra poco. Milano, nel nostro caso, conta ventiduemila famiglie bisognose di un tetto, a fronte di diecimila immobili inutilizzati; e ogni anno prendono possesso di una casa solo seicento-settecento richiedenti.

Sono fenomeni chiaramente dovuti alla depressione delle nostre economie e che tuttavia si esaltano, spaccano i già fragili equilibri sociali, quando si avvia un programma di repressione su scala nazionale. Il ministro degli Interni Alfano non perde occasione per fare professione di inflessibile durezza, integrità, irreprensibilità, assumendosi la responsabilità di una repressione che dall’Ast di Terni ai campi rom fino alle periferie, come la nostra, in odore di speculazione edilizia, involve l’intero stivale. 

In un Paese in cui sono accatastati, a seconda delle stime, dai 200 ai 600 mila immobili inutilizzati e circa 40 mila alloggi di edilizia popolare, anch’essi gusci vuoti, in cui 650 mila famiglie sono nelle liste di assegnazione della casa popolare e solo una minima parte riesce ad ottenerla, in cui 70 mila persone dormono in abitazioni di fortuna (23 mila solo dieci anni fa) e in cui, infine, solo il 6% dell’edilizia è popolare a fronte del 18% francese e del 21% tedesco; in un Paese così, si punta alla vendita del patrimonio esistente (vd. l’articolo 3 del Piano casa Renzi-Lupi, l. 80/2014), all’incentivo alla cementificazione, tanto cara alle consolidatissime lobbies dell’immobile, e alla barbara repressione, poliziesca, giuridica e civile (vd. art. 5, l. 80/2014, su cui vi prometto di tornare) della disperazione, quella cosa che dalle cifre non traspare. Eretico è invece pensare alla tassazione degli immobili inutilizzati, così da indurre i proprietari ad affittarli ed ottenere una diminuzione del canone: questa la proposta di Dean Baker, condirettore del Center for Economic and Policy Research di Washington D.C..

Milano: ventimila richieste, settecento assegnazioni all’anno, diecimila immobili vuoti, un ente regionale, l’ALER, in pessime condizioni finanziarie e un patrimonio in buona parte in condizioni fatiscenti – da cui discende la mancata assegnazione. Il tutto produce, a Milano come altrove, un notevole danno erariale e il ricorso, per chi ancora in qualche modo riesce a far fronte all’onere, al mercato privato; il quale dunque prospera – in un anno, un incremento dei contratti di locazione del 15% – e alimenta la bolla degli affitti, che svena famiglie e studenti. Lascia ben sperare, per inciso, il trasferimento della gestione degli immobili di proprietà comunale dall’ALER alla Metropolitana Milanese Spa, operato dalla Giunta Pisapia: “internalizzare” la gestione per controllarla, responsabilizzarla e renderla più efficiente. Staremo a vedere.

Dal contratto di affitto all’avviso di sfratto, passando per la perdita del lavoro il passo è breve: non sono solo gli sgomberi degli occupanti delle residenze popolari a comporre la rosa dei sessantotto mila sfratti che hanno investito il Paese l’anno scorso, con una situazione relativamente migliore di quella attuale e sempre più in caduta libera; il grosso è sicuramente composto da sgomberi ordinati a vantaggio di proprietà private. Che certo non attraversano un buon periodo.

Il punto è che, se non si riparte dal pubblico, dal suo ruolo assistenziale, dalla sua capacità di aggregare e crear fiducia, coesione sociale; se al contrario il pubblico diventa nugolo di inefficienze, promotore di ghiotte espansioni del capitale immobiliare, forza arcigna e repressiva della verissima e statisticamente non misurabile disperazione che alberga tra le violentate periferie, scarico ignobile dei prodotti di risulta degli impetuosi cambiamenti sociali e della concentrazione della forza economica; ecco, se accade tutto questo, nessun decreto potrà fermare la disgregazione sociale in atto. Resteranno solo le storie come quella di Sara.

Giuseppe Carlino -ilmegafono.org