“Sono partito dall’Afghanistan, ho viaggiato a lungo sotto il cassone di un camion. Poi, attraverso la Turchia, sono arrivato in Grecia e mi sono nascosto nuovamente sotto un camion per imbarcarmi su un traghetto diretto in Italia. Non mi hanno scoperto. Dalla Puglia sono scappato, a piedi, e sono arrivato in Sicilia. E adesso sono qui”. Queste parole me le ricordo bene. Ne ho ascoltate centinaia e centinaia di storie, scivolate da labbra di ogni forma, dipinte dagli accenti più svariati, capaci di caratterizzare anche quelle lingue divenute ormai universali. Ma queste parole virgolettate mi sono rimaste impresse nella memoria come se l’avessero marchiata a fuoco. Me le disse un minore afgano, occhi neri profondi e vispi, sei anni fa, quando mi è capitato di chiacchierare con lui, ospite di un centro di accoglienza per minori della provincia di Siracusa, durante la realizzazione di un documentario sull’immigrazione. Ricordo bene il suo nome, ma non lo scriverò per ragioni che sarebbe superfluo spiegare.

Il suo viaggio era stato incredibile, lo ammetteva lui stesso. Una lotta per la sopravvivenza, la fuga da un paese devastato da guerra e terrorismo, l’impervio territorio afgano da superare, poi l’Iran, la Turchia, la Grecia e infine l’Italia. Giorni e giorni di cammino, poi un camion sotto cui nascondersi, cercando di non desistere, di non cedere alla stanchezza. Ne avevo sentito parlare, ma era la prima volta che qualcuno me lo raccontava per esperienza vissuta. Lui era stato fortunato. A diciassette anni ancora da compiere aveva già vinto la sua sfida più importante. Ma, come hanno raccontato negli anni, gli attivisti di “Dirittiumanipertutti”, altri non ce l’hanno fatta.

Perché lungo quella rotta, c’è chi è morto prima di arrivare in Turchia, alcuni sono finiti sui territori sconnessi e minati delle vallate turche scelte dai trafficanti per condurre via terra i migranti in Grecia, altri sono affondati lungo il breve ma pericoloso tratto marittimo che separa le coste turche da quelle elleniche. Molti sono stati respinti, perché la Grecia non si è fatta scrupoli a rimandare indietro i disperati, condannandoli a morte quasi certa. Qualcuno è caduto anche durante il viaggio in Italia o subito dopo esservi approdato, come accadde a Zaher, un afgano di undici anni, morto a Mestre, travolto dal camion a cui aveva aggrappato le sue speranze e da cui, stremato, era scivolato. Di storie tragiche come questa ce ne sono tante.

Tragedie che non sono incidenti, ma omicidi, con mandanti politici identificabili. Tra gli assassini ci sono l’Europa, con il famigerato regolamento di Dublino, ma soprattutto la Grecia e l’Italia. Due paesi che hanno consapevolmente violato i diritti umani. L’arma del delitto si chiama “respingimenti”, una pratica che il nostro Paese ha iniziato ad attuare nei tre anni in cui Roberto Maroni era ministro dell’Interno (2008-2011) e che nel febbraio del 2012 ci è già costata una condanna, per quel che riguarda i respingimenti in Libia, da parte della Corte Europea per i Diritti Umani. Una pratica che, però, non riguardava solo chi arrivava dalla Libia, ma anche chi partiva appunto dalla Grecia, da Patrasso, con destinazione i porti italiani della costa adriatica. Migliaia di persone respinte, rimandate in Grecia, in una nazione nella quale praticamente non esiste diritto all’asilo e nella quale i diritti dei migranti vengono continuamente calpestati.

Tutto nel nome del regolamento di Dublino, che prevede che i profughi possano essere rimandati nel paese Ue nel quale sono approdati, infischiandosene del destino che li attende. Spesso, però, non si faceva riferimento nemmeno al regolamento e si attuavano rimpatri collettivi sommari, privi di qualsiasi supporto giuridico e normativo. Fino a quando, nel 2009, trentacinque richiedenti asilo afghani, sudanesi ed eritrei, hanno fatto ricorso alla Corte Europea, grazie ad un gruppo di associazioni e di avvocati e all’iniziativa preziosa di Alessandra Sciurba, ricercatrice universitaria e attivista che, con un viaggio a ritroso, è riuscita a far firmare le procure ai profughi respinti.

Così, in questi giorni, è arrivata la sentenza che condanna Italia e Grecia per aver violato la Convenzione Europea a salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e, in particolare, l’articolo 3 (“nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”), l’articolo 13 (“ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”) e l’articolo 4 del Protocollo n. 4 allegato (“le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”). Una sentenza storica che crea un precedente fondamentale. I respingimenti sono ufficialmente riconosciuti come illegali, come violazioni dei diritti umani, pertanto illegale sarà qualsiasi politica sull’immigrazione che, in Europa, voglia puntare su questo strumento disumano.

Un bel colpo sul muso di chi, come Salvini e Grillo, continua vergognosamente a proporre soluzioni più o meno simili, ora definitivamente vietate sul piano normativo e, da sempre, ignobili sul piano dell’umanità. Una sentenza fondamentale anche per l’Ue e per le sue politiche ancora miseramente arroccate sulla ottusa visione di un’Europa “cittadella fortezza” (per dirla con la sociologa Laura Balbo), che sembra trovare nuovo spazio nell’assurda operazione Mos Maiorum e nell’avvento di Triton, la nuova formula di pattugliamento (con regole molto ambigue) delle frontiere marittime mediterranee, che sostituirà Mare Nostrum. Due novità che segnano il potenziamento del programma Frontex con un indirizzo ancora più repressivo e autoritario nei confronti dei migranti.

La Corte Europea prova dunque a fare giustizia, mentre gli stati membri e le istituzioni europee sono riemersi dalla retorica e dall’ipocrisia del 3 ottobre 2013, riproponendo il loro vero volto, segnato dallo sguardo feroce e da un ghigno palesemente sadico. Un controsenso che adesso è ancor più difficile da ignorare.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org