Quando il Pd siciliano e Rosario Crocetta annunciarono l’alleanza pre-elettorale con l’Udc, mi indignai e scelsi di non votarli, perché, nonostante ripetessero che l’Udc aveva ormai cambiato strada, eliminando indagati e condannati per mafia dalle liste, non mi fidavo e continuavo a sostenere che non si potesse comunque andare al governo con gente che aveva fatto emergere, sostenuto, acclamato e difeso l’indifendibile Totò Cuffaro. Se ne sono fregati di chi presentava tali obiezioni, alle quali replicavano anteponendo la solita scusa della governabilità necessaria a cambiare l’isola. Risultato? Nessun cambiamento, conservazione dello status quo e le solite indagini che sembrano evidenziare un interesse mai sopito dei clan per il partito di Casini.

Come quella che ha portato agli arresti del presunto nuovo boss di Corleone, Antonino Di Marco, fedelissimo di Totò Riina, e di altre quattro persone. Secondo gli inquirenti, i clan, oltre a vessare gli imprenditori con estorsioni e assunzioni imposte, puntavano a gestire il sistema di appalti, un’attività che, come è noto, richiede il sostegno della politica. Dall’inchiesta, coordinata dalla Dda di Palermo, infatti, emergerebbe un impegno concreto per l’elezione di un deputato regionale e, inoltre, risulterebbe anche un rapporto diretto tra Di Marco e il deputato Udc, Nino Dina, dal momento che, durante le attività di pedinamento, il boss sarebbe stato visto entrare più volte nell’ufficio della segreteria politica del deputato.

Chiaramente la giustizia farà il suo corso, le eventuali responsabilità saranno oggetto di accertamento, ma nel frattempo ci si augura che politicamente, senza attendere oltre, si prendano i necessari provvedimenti, facendo sì che Dina, presidente di un ufficio importante e delicato come la commissione Bilancio, lasci l’incarico, in attesa che la vicenda si chiarisca del tutto. Questo perché il deputato, che rivendica la propria estraneità ai fatti, si è autosospeso dal partito, per “tutelarlo da speculazioni”, ma non ha pensato di rinunciare alla poltrona in commissione, che evidentemente, a suo avviso, non richiede uguale tutela. Al di là delle spiegazioni che egli si dice pronto a fornire ai magistrati e dell’assenza di elementi di rilevanza penale, resta il fatto che, moralmente e politicamente, la conoscenza tra un politico di primo piano e un boss mafioso, alimenta sospetti che non si sposano con l’attività istituzionale e che richiederebbero un deciso passo indietro. 

L’Udc siciliano, così, si trova nuovamente nel mezzo di una vicenda che riguarda presunti rapporti di suoi esponenti con gli ambienti mafiosi. Crocetta ha corso un rischio e adesso si trova a dover in qualche modo glissare o giustificarsi affermando, che, al momento della candidatura, Dina, in passato già indagato (nel 2009) per concorso esterno, aveva presentato “il certificato del suo proscioglimento”. Peccato, però, che lo stesso, nel 2013, quindi dopo le elezioni regionali, sia stato condannato in appello dalla Corte dei Conti, insieme ad altri 16 politici, ad un maxi risarcimento per lo “scandalo Sise”, ossia l’assunzione (senza indizione di bandi pubblici) di 1200 persone nella Sise, una società partecipata della Croce Rossa e convenzionata con la Regione, e nel Ciapi, un noto ente di formazione. Dina, ai tempi della violazione contestata dalla giustizia contabile, era membro della Commissione regionale alla Sanità, ed è stato condannato a risarcire, in attesa della Cassazione, circa 700mila euro.

La riflessione che si può trarre da questi ultimi eventi siciliani è che, forse, al di là delle sentenze e delle condanne, nella predisposizione delle liste bisognerebbe dare spazio a chi mai è stato oggetto di indagini da parte delle procure, soprattutto in tema di mafia. In questo, purtroppo, lo scenario di partenza del governo siciliano appare applicabile facilmente anche al governo nazionale, dove il Pd (o meglio, la sua parte maggioritaria, purtroppo) e Matteo Renzi scelgono di governare con Berlusconi e con i reduci di quel partito, Forza Italia, nato da un’idea del Cavaliere e di Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Partito che, nella sua storia, ha proclamato eroe un boss mafioso (Mangano) e non si è certo distinto per il contrasto alla criminalità organizzata.

Risultato? Oltre alla continuità con scelte industriali che riaccendono vecchi appetiti lobbistici, si registra l’assenza di misure concrete nel contrasto alla mafia. Al contrario, come abbiamo già scritto su queste pagine, spicca un tentativo di riforma della giustizia che penalizza i magistrati, non li coinvolge e, anzi, li attacca, li insulta. Soprattutto, nessun sostegno ai giudici che a Palermo sono impegnati in una durissima lotta per la ricerca della verità. Atteggiamento curioso, quello di Renzi e dei suoi fedelissimi: indifferenza nei confronti di chi combatte Cosa nostra e i suoi complici istituzionali, ma benevolenza e rispetto nei confronti di pregiudicati che, addirittura, diventano fedeli alleati con cui riformare il Paese.

Se tutto ciò è normale, così come è normale che a Palermo si debbano chiedere provvedimenti “politici” (che, invece, dovrebbero essere naturali) nei confronti di un deputato sul quale grava comunque un sospetto, allora smettiamo di aspettarci dal futuro qualcosa di buono, perché malgrado gli annunci “rivoluzionari” (che pena l’abuso di tal nobile parola!), qui siamo impantanati nel gattopardismo più infimo e non sarà facile venirne fuori. Soprattutto se si continua a sperare che a lanciarci la fune sia un nuovo salvatore della patria. L’ennesimo.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org