Dopo “Bar della rabbia” e “Supersantos”, è arrivato “Al monte”, il terzo album di Mannarino, uscito lo scorso maggio. Lasciate da parte le rumbe, le fanfare sgangherate e i ribelli, sedetevi anche voi e ascoltate questo terzo intimissimo lavoro, che scorrerà ai vostri piedi come un fiume quieto e denso. Il cantautore romano dà voce a chi “non ha molta scelta tra la fame e la galera”, raccontando e musicando nove storie di ricerca piena e disperata di una via di uscita. Poco importa se gli uomini si fanno bestie senza aver ricevuto amore, nella stalla nazionale, rasandosi la testa e partendo militari (Malamor) o se sono proprio le bestie a insegnarci a non finire nella rete e a distinguere la luce delle lampare da quella delle stelle (Gli Animali).

In Scendi giù, quinta canzone dell’album, la vita non lascia scampo, ma la vendetta scende spavalda e sbeffeggiante come uno stornello maledetto a far giustizia a un detenuto ammazzato di botte in prigione, al quale, forse, più della morte brucia l’amarezza di non poter dare un ultimo bacio alla propria amata.

Poi, come nel brano Gente, c’è l’amore che salva o che tramuta due cuori d’oro in due croci, che non sopravvive alla neve. Amore che è speranza e dannazione. Amore che ti trascina tra la folla in un avvincente danza tutta gitana, dove poter finalmente lamentarsi e volteggiare tra trombe e violini. L’amore, dunque, resta l’unica consolazione a cui anelare. L’unico miracolo capace di cancellare il dolore più nero e far sorridere anime belle, anche se con labbra screpolate (Signorina).

L’amore può essere la sola forza e l’unico gravissimo peccato per molti Adamo ed Eva che, dall’alba dei tempi, si rincorrono mondo dopo mondo, era dopo era, desiderando di vivere semplicemente stretti nella loro passione dannata, che per loro è vita (Al monte, la traccia che dà il nome all’album). Perché l’amore libera da ogni schiavitù e dona la speranza che l’impero di tenebre possa sbriciolarsi al sole delle risate (L’impero). Una speranza che qualcuno, a volte, affida invece al proprio dio, possibilmente il settimo dio cantato in Deija (quello che “è apparso alle baracche stamattina e c’è speranza nuova tra la gente, stavolta è quello giusto veramente”). 

Impronta importante in questo album è data dai fiati che urlano al cielo una nostalgia nuova, fatta di consapevolezza e indignazione, accompagnati da chitarre acustiche, fisarmoniche e cori. Una musica a volte zingara, a volte onirica, ed una voce profonda e malinconica, quasi ad accompagnarci, una notte dopo l’altra, tra i ricordi che bruciano e i lutti che fanno piangere di nascosto.

Le stelle è una sorta di nenia carica di speranze e al tempo stesso di disillusioni: “Ridere e tremare, cercare nei campi di grano nel fondo del mare, dove va a finire il profumo delle stelle che da qui non si sente”. È la traccia che chiude quest’album, che forse ha bisogno di più di un semplice ascolto per diventare nostro, ma che una volta che ci raggiunge ci si piazza addosso come un paio di occhiali che sfocano le ricchezze, le invidie, gli orpelli e mettono in primo piano le storie vissute, con gli sbagli, le amarezze, gli affanni e il calore che solo le vite veramente vissute possiedono.

FrankaZappa –ilmegafono.org