Si sta diffondendo una strana tendenza, ossia quella di archiviare con il timbro di “superato” o “passato” quello che in realtà è palesemente attuale. Soprattutto, a colpi di battute infelici, vogliono convincerci che la mafia uccide meno dello Stato o che si trovi in posizione subalterna rispetto alle cricche di malaffare, alle associazioni a delinquere. Vogliono convincerci che oggi l’associazione a delinquere è formata principalmente “da un banchiere, un uomo d’affari, un politico, un commercialista, un avvocato, un magistrato” e che “a volte non c’è neanche il delinquente”.

Evidentemente chi sostiene certe cose presenta qualche lacuna in materia oppure semplicemente utilizza questo meccanismo comunicativo per confondere le acque, per mettere cose profondamente diverse sullo stesso piano, mescolarle in un unico calderone. A quale scopo? Contribuire all’opera di smantellamento, concettuale prima che materiale, dello Stato, delle sue istituzioni, delle loro funzioni, ma soprattutto della fiducia dei cittadini, messa già in ginocchio dagli scandali che ogni giorno vengono smascherati. Da questo mescolamento di casi, vicende e situazioni, le istituzioni escono sempre peggio rispetto alle mafie, che vedono annacquato il loro ruolo di protagoniste in negativo.

Così si spendono parole, si agitano vessilli reazionari, si invocano le manette e i processi per i giornalisti, si attacca la politica, ma poi non si usa la stessa veemenza, non si mostra la stessa rabbia nei confronti dei clan che soffocano il tessuto economico e civile di questo Paese. In questa campagna elettorale, non si sono sentiti molti ragionamenti e discorsi sulle mafie, sull’importanza di una lotta europea al crimine organizzato che infetta non solo l’Italia ma anche altri stati, nei quali si è infiltrata con facilità: si pensi alla Spagna o alla Germania, giusto per fare qualche esempio, dove camorra e ‘ndrangheta in particolare sono un fenomeno ben radicato.

Al contrario, si è assistito all’uso di un linguaggio pericoloso, grave, che ha finito per trasformare in metafora politica le logiche mafiose, quelle legate a pratiche terribili che richiamano dolori e ferite atroci. Il riferimento alla “lupara bianca” fatto da Grillo, che l’ha definita una battuta o un termine giornalistico, richiama alla mente la scomparsa di innocenti come il piccolo Giuseppe Di Matteo e la testimone di giustizia Lea Garofalo o di uomini valorosi, come Placido Rizzotto e Mauro De Mauro, persone svanite nel nulla e uccise, con l’aggravante della crudeltà di non restituire nemmeno i resti ai familiari, non consentirgli di piangerli, di pregare, di seppellirli e poterli andare a trovare con un fiore in mano per ricordarli.

Tutt’altro che un termine giornalistico: un’espressione che sa di violenza e atrocità e che sarebbe meglio non usare, nemmeno come metafora, soprattutto se rivolta a qualcuno di cui si auspica la scomparsa. Questo clima sta producendo un altro effetto negativo, vale a dire l’idea in generale che la memoria non serva più, che è un fatto passato. Senti dire che i nemici oggi sono altri e che è su quelli che bisogna concentrarsi. La memoria diventa quasi un peso, nonostante ci siano processi che stanno cercando di svelare i legami tra quel passato e il presente. Legami che hanno attraversato oltre venti anni di storia e hanno fatto risuonare il rumore sinistro del tritolo e quello grigio del silenzio e della complicità occulta.

Nella settimana in cui abbiamo commemorato le vittime della strage di Capaci, sarebbe stato meglio misurare le parole e soprattutto non dimenticare. Non soltanto chi è morto, ma soprattutto quello che ha fatto, le indicazioni che ha fornito, la strategia di lotta che ha disegnato e ci ha affidato in eredità. Perché, che piaccia o no, non c’è nulla che possa dimostrare che ciò che ci è stato lasciato sia stato superato e non più attuale.

E sarebbe meglio anche, al di là delle ragioni o meno, non lasciarsi andare a scontri e divisioni che lacerano un movimento che andrebbe ricompattato, non rinunciando alla critica e al confronto, certo, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo finale, che è comune, non dimentichiamolo mai. Giudizi avventati e forzati, come quelli espressi da Marcelle Padovani nei confronti dei magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia, sono il migliore assist offerto a chi prova a resistere al tentativo serio di far luce su una pagina di storia che ancora oggi è aperta come le ferite che ha provocato. E che fanno male.

 Massimiliano Perna –ilmegafono.org