L’arresto dei fratelli Cosentino (Giovanni, Antonio e Nicola) avvenuto qualche giorno fa mostra una delle caratteristiche tipiche del fenomeno mafioso: da una parte, il nuovo colpo subito da un’operazione di polizia e magistratura determina una sconfitta e l’abbattimento di un sistema di controllo; dall’altra, la potenza mafiosa e la capacità di rigenerarsi continuamente, utilizzando spesso gli stessi uomini, lascia pensare che in realtà più che di un abbattimento si tratta di una semplice interruzione. A conti fatti, si potrebbe perciò affermare che ci sia poco da esultare per l’ennesimo arresto di Nicola Cosentino e per quello dei suoi fratelli: la gravità del caso, infatti, è talmente evidente ed enorme che non coinvolge soltanto l’ambiente strettamente politico, ma invade e coinvolge quello sociale e soprattutto culturale.

Ma procediamo con ordine. Nel 2013 Nicola Cosentino, ex deputato del Pdl, viene arrestato per concorso esterno in associazione camorristica e corruzione. Ottiene i domiciliari dopo qualche mese e infine, nel novembre dello stesso anno, il tribunale di Santa Maria Capua Vetere ne ordina la scarcerazione. Non passano nemmeno sei mesi e Nicola Cosentino è nuovamente arrestato, questa volta con l’accusa di estorsione e concorrenza sleale con metodo mafioso nel settore della distribuzione di carburanti.

Insomma, quando si dice che il sistema giudiziario in Italia non sia all’altezza di quelli europei non lo si fa certo per criticarlo senza una giusta causa. Il caso Cosentino, infatti, dimostra come le pene siano troppo spesso deboli (ma sarà così con tutti?) ma anche come il problema, in realtà, si trovi all’origine e al di fuori dell’ordinamento giuridico. Ossia nel rapporto stretto tra mafia, impresa e istituzioni, un intreccio che diventa agevolmente controllo del territorio, grazie anche alle intimidazioni che terrorizzano chi  lo subisce. 

Nel caso specifico, i dettagli che emergono dall’inchiesta del tribunale di Caserta appaiono sconcertanti. Secondo le indagini coordinate dai pm Antonello Ardituro, Fabrizio Vanorio e Francesco Curcio, la famiglia Cosentino avrebbe gestito il business dei distributori dei carburanti in tutto il territorio casertano con la complicità di alcuni dirigenti della nota azienda Q8. Questi ultimi, infatti, avrebbero ottenuto licenze e permessi nonostante ci fossero degli impedimenti di tipo burocratico. Tali impedimenti, ovviamente, sarebbero stati aggirati grazie alla presunta fitta collaborazione tra i Cosentino e il clan dei Zagaria, di concerto con numerosi dirigenti pubblici collusi.

Il caso centrale è quello che riguarda l’imprenditore Luigi Gallo. Secondo l’accusa, Nicola Cosentino, insieme all’ex prefetto di Caserta, Maria Elena Stasi, avrebbe minacciato “azioni ritorsive” nei confronti dell’allora sindaco di Villa di Briano (CE) nel caso in cui non avesse annullato l’autorizzazione concessa a Gallo per realizzare una stazione di servizio, che avrebbe impedito un analogo investimento da parte della stessa famiglia Cosentino nella stessa zona. Proprio Gallo, per  evitare problemi, avrebbe cercato chiesto a Giovanni Cosentino di aprire l’impianto in società. La risposta fu negativa e iniziarono così pesanti pressioni, finalizzate a convincerlo a cedere. Cosa che avviene, anche se poi Gallo ha trovato il coraggio di denunciare.

L’intera vicenda dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che la criminalità organizzata è in grado di fare profitto in qualunque modo e settore e con qualunque mezzo. Racket, droga, prostituzione, appalti e poi pure carburanti: essa è presente e sempre in grado di controllare tutto. Ecco perché l’arresto di Cosentino non deve soltanto indignare da un punto di vista politico, ma soprattutto culturale e sociale: finché certa gente continuerà a essere votata, eletta, difesa, sostenuta dai cittadini, per una propria convenienza, qualunque battaglia antimafia sarà pressoché vanificata.

Giovambattista Dato -ilmegafono.org