Se una ricorrenza diventa solo l’occasione per donare la propria dose di retorica e di ipocrisia, allora sarebbe perfino meglio non celebrarla. Anche perché, nel caso specifico, si tratta di qualcosa che, vivendo nel quotidiano, trecentosessantacinque giorni all’anno, di tutto ha bisogno meno che di retorica e di toni falsamente comprensivi e gentili. L’8 marzo dura sempre un giorno, nonostante sia forse una delle poche date legittimate ad espandere il suo raggio su tutto il calendario. Durante quel giorno, al di là delle parole, dei post virali sui social, dei buoni propositi, delle tante foto di scarpette rosse sul web e delle promesse politiche, il sangue continua a scorrere, dentro le case, sui corpi, per strada.

Sangue di donne uccise da una logica che nessuna repressione è in grado, da sola, di fermare. Il possesso, la sopraffazione, il gioco mortale della forza sulla debolezza, la lama tagliente dell’oppressione psicologica, dell’ossessione che diventa violenza. Violenza di genere, la stessa che non solo le donne subiscono, ma anche omosessuali, transessuali, ragazzini e ragazzine indipendentemente dal loro sesso, dal loro orientamento. Maschilismo e omofobia, i denti di una lama che si affila grazie alla cultura che è ben radicata nel nostro Paese, in ogni dove, a qualsiasi livello, senza distinzioni geografiche, di età, di religione, di censo.

Una cultura retrograda, malata, che discende dal maschio e si propaga, mietendo vittime e nutrendo, con l’esempio perverso della mentalità dominante e del linguaggio, potenziali futuri assassini, sopraffattori, aguzzini. Lo Stato stesso è dominato da questa logica, perfino quando cerca di agire in buonafede. Si focalizza sulla repressione, che è importante ma non risolutiva. Perché si cerca di reprimere il comportamento, ma troppo spesso si arriva quando è ormai troppo tardi, quando l’unica cosa che si può fare è punire il fatto compiuto. Non si punta mai sulla prevenzione e soprattutto sull’educazione, su un modello di società che, oltre che nei valori, dovrebbe mutare anche nei fatti concreti, attraverso delle misure precise.

Quali? Sicuramente la strutturazione dei centri antiviolenza sul territorio, il loro coinvolgimento diretto nella denuncia, che non deve essere una forzatura, ma il punto centrale di un percorso di liberazione iniziato attraverso la “copertura” psicologica ed economica della donna. Perché tra le cose che ostacolano la scelta di liberarsi, di denunciare, c’è anche il fattore economico. Ci sono donne che non hanno reddito, che spesso non hanno neanche dove andare e che non riescono a denunciare il proprio coniuge o compagno o familiare proprio perché il giorno dopo sarebbero sole, abbandonate a se stesse.

Parlo di donne reali, che ho conosciuto e di cui ho ascoltato la storia. Donne con figli e senza un lavoro, senza la possibilità di tornare dai genitori, rimangono vittime di uomini che le picchiano, umiliano, abusano e da cui non possono affrancarsi senza che qualcuno si occupi poi di loro e della loro prole. Ecco perché la repressione da sola non ha alcun senso, anzi così rischia soltanto di aumentare la portata della vendetta e di conseguenza quella della paura. Allora bisogna che le istituzioni imparino a rispettare davvero le vittime della violenza di genere, rinunciando alla retorica strumentale, ai temi futili e mettendo mano a strumenti che diano respiro alle donne, garantendo parità di accesso e di condizioni nel mondo del lavoro, indipendenza economica (che vuol dire nessuna schiavitù da compagni o mariti).

A ciò si affianchino interventi sociali (con investimenti sui centri antiviolenza, sulle strutture di accoglienza per donne che si vogliono liberare dalla morsa dei loro carcerieri), normativi (migliorare ulteriormente la legge sullo stalking anche sulla base dell’esperienza accumulata in questi anni) e politici (difendere l’autodeterminazione della donna, vietando retrive logiche antiabortiste, che, dietro la maschera fasulla dell’obiezione di coscienza, impediscono la libera scelta su un tema delicatissimo e doloroso).

Alla politica e anche ad alcune paladine delle quote rosa che trasversalmente credono che un decreto sulla parità di genere, inutile quanto offensivo per le donne stesse, sia di primaria importanza, bisogna chiedere attenzione ai fatti concreti, quelli su cui la sincerità con cui si aderisce a una battaglia prima di tutto culturale è realmente misurabile e dunque smentibile. Non c’è più spazio per il rumore sterile della distrazione artificiale, della propaganda, dell’impegno solo verbale, della retorica, dell’ipocrisia, delle bugie. O ci si sbraccia davvero, con quelle azioni che in tanti chiedono da tempo, oppure meglio tacere. Anche l’8 marzo, che intanto, lontano dalle tante parole, continua a macchiarsi di dolore e sangue.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org