Ci sono storie che non passano, non possono passare, tanto acuto è il dolore che hanno prodotto, l’ingiustizia che hanno lasciato, come marchio indelebile. La terribile storia è quella di Emanuele Scieri, giovane avvocato siracusano assassinato dai militari della Folgore, nell’agosto del 1999, nella caserma Gamerra di Pisa. Una morte atroce, al termine di un atto ignobile e tragico. Un’agonia lunga, il cadavere lasciato all’aria aperta per tre giorni, fino a quando, a causa del cattivo odore, qualcuno lo trova. Un assassinio le cui responsabilità non sono mai state accertate o punite, per via dell’omertà e degli insabbiamenti da parte della Brigata Folgore. Un’archiviazione ingiusta, a cui i familiari e gli amici di Emanuele non si sono mai rassegnati. Anche le interrogazioni parlamentari, le richieste di istituzione di una Commissione di inchiesta sono rimaste ignorate.

La verità rimane nascosta dentro lo squallore graduato dei responsabili della caserma, dei soldati, di quei parà che sanno e tacciono. Intanto, Corrado Scieri, padre di Emanuele, è morto anche lui, nel 2011, senza sapere perché e da chi suo figlio, un ragazzo ottimista e onesto, intelligente e forte, sia stato ucciso. Una vicenda triste, dolorosa, grave, di cui questo Paese si è accorto appena, senza troppo rumore. Come accade spesso nelle vicende che denunciano il sistema malato dentro l’esercito e alcuni reparti in particolare. Il caso di Emanuele è la punta di un iceberg fatto di violenze psicologiche e fisiche, di quel “nonnismo” che è il marchio di fabbrica della perversione di certi corpi militari, quelli che, alla stregua di Full Metal Jacket, credono che per forgiare l’uomo sia necessario umiliarlo.

Emanuele era un ragazzo colto, era lì per svolgere il servizio di leva, che dopo la laurea e il ventiseiesimo anno di età compiuto, diventava obbligatorio e non più rinviabile. Aveva scelto quel reparto a diciotto anni, durante la visita militare, quando, soprattutto se sei iscritto all’università, scegli senza neanche troppa convinzione. Ma Lele era una persona seria, che rispettava gli impegni. Aveva deciso quindi di addestrarsi, in quell’estate del 1999, aiutato da un fisico sportivo e forte.

Era un avvocato, un uomo di diritto, poco incline a tollerare gli abusi. Arrivò alla caserma Gamerra a ridosso di Ferragosto e probabilmente la sua indole di uomo integerrimo era evidente. Ed è un aspetto che ai militari, ai superiori soprattutto, non piace. Loro preferiscono gli obbedienti, i timidi e in particolare, come dimostra questa storia, gli omertosi. Ma di questi aspetti non si parla tanto in questo Paese di retorica patriottica, con i suoi funerali di Stato e la storiella del soldato di pace, gentile e umano. Sono state dimenticate in fretta e archiviate le violenze passate di cui vennero accusati i militari italiani durante la loro missione a Mogadiscio. Le ombre proprio sulla Folgore, qualche protesta in piazza a Pisa, una commissione di inchiesta e, alla fine, qualche sanzione a otto ufficiali e cinque sottufficiali. Stop. Tutto finito.  

Nessuna luce su fatti legati a questo reparto, fatti che sono precedenti a quello che portò alla morte di Emanuele, della quale si discusse grazie soltanto all’impegno della sua famiglia e degli amici. Di quei giorni si ricorda la scoperta dello “Zibaldone”, un agghiacciante testo contenete scritti, citazioni, regole, preghiere razziste, istruzioni per il nonnismo, la prova delle logiche agghiaccianti interne alle forze armate, redatto dal generale Comandante Enrico Celentano. E poi si ricordano le reticenze, le incongruenze, la terribile omertà fiancheggiata da un’opinione pubblica e da una politica che non avevano il coraggio di mettere in dubbio l’integrità di un corpo prestigioso dell’esercito, nonostante fosse già stato coinvolto nella questione somala. Così, in breve è calato il silenzio, mentre la giustizia non è riuscita a scoprire la verità. Che però è incontrovertibile.

Lele è stato assassinato, probabilmente costretto a salire sulla torre di asciugatura del paracadute, picchiato alle mani mentre si reggeva e quindi precipitato giù, rompendosi una vertebra, lasciato solo ad agonizzare per ore. Nessuno si è occupato di lui, nessuno si è preoccupato della sua assenza agli appelli. Per tre maledetti giorni. Ritrovato quando ormai era cadavere. Hanno provato perfino a dire che si fosse suicidato, lui che aveva chiamato la madre e la fidanzata, con il suo tono tranquillo e allegro di un giovane che ama la vita, senza una ragione per farla finita. La giustizia ha fallito, negando ai suoi cari e ai suoi concittadini il diritto di vedere puniti i responsabili e chiarita la verità.

Ricordo il dolore, la commozione e la rabbia ai suoi funerali nella cattedrale di Siracusa, le lacrime dei familiari e degli amici più stretti, quelli che hanno condotto una battaglia lunga, delusa da un iter processuale conclusosi con l’archiviazione del caso. C’è qualcosa che, però, possiamo ancora fare per oltrepassare la giustizia: mantenere la memoria. Non dimenticare, fare in modo che tutti conoscano questa storia, che si sappia cosa è accaduto e cosa avviene dentro le forze armate, quali logiche circolino, magari anche oggi che, per fortuna, c’è la ferma volontaria, grazie a una legge che se fosse stata approvata prima magari avrebbe risparmiato dolore fisico e psicologico a tante reclute e salvato la vita a Lele Scieri.

Ecco perché è importante che si continui a parlarne, in qualsiasi modo e con qualsiasi forma, come fa un docu-spettacolo, dal titolo “Emanuele Scieri, vittima della Folgore”, di Isabella Guarino e Corrado Scieri, genitori di Emanuele, per la regia di Paolo Orlandelli, in scena al Teatro di Documenti di Roma fino al 16 marzo prossimo (andate a vederlo). Bisogna ricordare, affinché, a distanza di tempo, possa accadere qualcosa, anche nella coscienza degli assassini, e si possa squarciare il velo di omertà che ha funestamente ammantato questa tragica vicenda. Dubito che avverrà, ma almeno la speranza abbiamo l’obbligo di mantenerla viva.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org