Continua il nostro viaggio tra i conflitti che abbiamo, in un’ottica mediatica occidentale, voluto chiamare “dimenticati”. Oggi parleremo della Repubblica Centrafricana, un paese nel cuore del continente nero, grande circa il doppio dell’Italia ma con una popolazione di 4,6 milioni di abitanti, pari più o meno a quella del Piemonte. La popolazione è per metà cristiana, e per un quarto musulmana e animista (credi locali), anche se vi sono fonti che citano una percentuale superiore di cristiani.

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Stato francofono e repubblica presidenziale, indipendente dal 1960, dopo una serie di regimi militari, è sotto il giogo di continui colpi di Stato, di cui l’ultimo avvenuto nella primavera del 2013, volto alla destituzione del presidente, ormai ex, Bozizè. Il conflitto è di natura religiosa e il nord del paese, da sempre zona franca, è in mano a una federazione di ribelli musulmani chiamata Seleka, ovvero Alleanza in lingua Sango, composta da mercenari provenienti dal Ciad e dal Sudan. Proprio nel marzo del 2013, la coalizione di ribelli giunge nella capitale, costringendo Bozizè a fuggire nella Repubblica Centrafricana del Congo, e proclamando Michel Djotodia, suo famoso rivale musulmano, come presidente.

Da allora la coalizione Seleka è stata sciolta da Djotodia e i gruppi di ribelli, sulla base di suddivisioni del territorio, seminano il caos tra la popolazione locale, ai danni dei cristiani. Nella capitale, a Banguì, fino a settembre 2013, i cristiani, prima di sera tornavano a casa, per via della totale insicurezza nella città. Ma già dal 2009 gruppi di nome “Anti-balaka” (anti macete) di matrice cristiana e animista, appoggiati anche dall’ex-presidente Bozizè, stanno contrastando i ribelli musulmani, invertendo lo spettacolo di morte e orrore. Dal dicembre del 2013 tutto questo è sfociato in una guerra civile aperta e dichiarata.

Sempre nel dicembre del 2013, dopo la morte a Banguì di circa 1000 persone in pochi giorni, il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato la Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine (MISCA) di ristabilire l’ordine pubblico con 5500 soldati, con il sostegno delle truppe dell’Unione africana e 1600 soldati francesi. Ma la guerra è ormai endemica e la situazione peggiora di giorno in giorno, come denunciano Amnesty International e Human Rights Watch.

Le varie fazioni ex-Seleka hanno così in mano, tra i territori, le principali risorse del paese: oro, diamanti e uranio. Noureddine Adam è uno dei personaggi chiave: capo ribelle con studi in Arabia Saudita e forti legami con i paesi del golfo arabo, sembra essere tra i più forti sostenitori della spinta islamica.

Violazioni dei diritti umani sono state effettuate da entrambe le fazioni e alcune fonti parlano di 2,3 milioni di persone senza assistenza umanitaria (sanitaria ed alimentare). I dati di questo conflitto sono confusionali e poco chiari: Medici Senza Frontiere di certo ha dato riparo a 100.000 cristiani e a Banguì, la capitale, mezzo milione di persone vivono in campi protetti, metà della popolazione della città. Invece sono di certo 62.000 gli abitanti che dal settembre 2013 hanno lasciato il paese per rifugiarsi nei paesi limitrofi (fonte UNHCR). Non pochi sono i casi in cui milizie cristiane hanno ucciso musulmani sotto gli occhi di soldati francesi, costretti ad astenersi per non schierarsi e risultare imparziali.

Il silenzio internazionale, l’atrocità di due fazioni di carattere religioso, il caos totale e manovre internazionali velleitarie fanno ricordare ciò che successe tra Hutu e Tutsi in Ruanda, uno dei più grandi massacri della storia contemporanea.

Per molti operatori, il tutto era prevedibile e soprattutto evitabile, ma ormai è noioso dirlo. Dove vi sono oro, uranio e diamanti, poche giustificazioni posso essere rilasciate, purtroppo poche sono le domande su chi poi compra queste materie prime, chi dà valore ai giacimenti. Il conflitto religioso è, storicamente, il movente migliore per aizzare un gruppo contro un altro. La religione permette di invocare Dio, qualunque esso sia, e giustificare tutto, giustificare un machete che massacra donne e bambini sotto gli occhi del padre, giustificare barbarie e linciaggi pubblici. Quando si invoca un conflitto in nome di Dio sembra esserci sempre il delirio più dissacrante, sembra essere la valvola di sfogo violenta per chi mangia miseria e sofferenza da anni. Padre Zanotelli, noto missionario e operatore umanitario, negli anni novanta in Kenya, alla domanda se abbia mai dubitato dell’esistenza di Dio rispose:

“Non una ma molte volte. Quando uno si trova in situazioni così assurde, davanti ad una sofferenza innocente, come è capitato a me a Korogocho, il primo dubbio che viene è proprio su Dio. Perché uno si chiede: ma se tu, Dio, ci sei, è impossibile che non intervenga di fronte ad una sofferenza così atroce. Ma oggi Dio è impotente, è malato. Potrà guarire solo quando guariremo noi. Solo noi oggi possiamo far qualcosa. Dio non può più. Ognuno di noi è importante perché vinca la vita. Più ci rifletto e più mi convinco che forse Dio non è l’onnipotente che pensiamo noi. È il Dio della croce. Perché non ha ascoltato la preghiera di Gesù morente? È un mistero. Forse è un Dio debole, che si è autolimitato, che può salvarci solo attraverso di noi”.

In che modo la comunità internazionale affronterà questo caso e quelli simili del futuro? In campo sanitario stiamo assistendo all’onnipotenza della prevenzione, la politica internazionale invece preferisce continuare a muoversi solo quando il massacro è in pieno atto, di norma inviando sempre un numero esiguo di soldati che fungono da barriera umana per proteggere i profughi più fortunati che riescono a giungere nei campi protetti.

Non si sta invocando un intervento armato, ma solo facendo una domanda. La volontà di questi enti internazionali, capeggiati dall’ONU, in termini kantiani, sembra sì, conforme al suo dovere, ma senza seguire la morale intrinseca per cui è stato posto. Le istituzioni internazionali, spesso piattaforme di relazioni politiche internazionali, hanno il dovere di difendere la dignità umana, dovere autoimposto dalle stesse organizzazioni e spesso non raggiungibile dall’assistenzialismo sussidiario delle molte ONG sempre più professionali e determinanti.

Italo Angelo Petrone – ilmegafono.org