Nello scorso numero avevano mirato l’attenzione su una serie di conflitti che l’occidente sta trascurando. Tra i tanti si era parlato anche di quello recentemente scoppiato nel Sudan del Sud ed eccoci qui a cercare di dare un quadro della situazione in termini politici ed economici. È il 9 luglio del 2011: tramite un referendum, dopo due guerre civili, ovvero quasi quarant’anni di sangue, il Sud Sudan diviene uno stato indipendente, staccandosi dal Sudan. Il referendum secessionista, frutto di un accordo di pace del 2005 (Accordo di Naivasha) che sancì la fine della seconda guerra civile sudanese, è passato con il 98,81% dei voti e un affluenza del 96%.

Il Sud Sudan è uno tra i paesi più poveri al mondo, il PIL annuo pro capite è di 984$ (meno di 3$ al giorno) e, fidatevi, nel Sud Sudan il PIL è ancora un ottimo misuratore di povertà, inoltre è senza sbocchi sul mare, con circa 12 milioni di abitanti e da sempre con forti presenze cristiane oltre che molte religioni animiste (credi locali). Molteplici etnie e lingue vedono però i Dinka e i Nuer come i due gruppi predominanti in termini di popolazione. Sud Kordofan, Blue Nile e Abyei sono invece tre aree molto ricche in termini petroliferi, la cui assegnazione al Sudan del Sud o del Nord deve ancora essere svolta tramite dei referendum continuamente rinviati. Le dinamiche che hanno portato ai primi scontri durante la metà di dicembre dello scorso anno sono molto confuse e vaghe, certa è solo la forte ostilità tra l’attuale presidente Salva Kiir e il suo ex-vice presidente Riek Machar.

Il primo appartenente all’etnia Dinka e a capo dell’esercito ufficiale mentre Machar è con i suoi miliziani Nuer ed altre etnie minori. I due, seppur precedentemente uniti nel SPLM (Movimento per la liberazione del popolo sudanese), sono da sempre in forte conflitto. Secondo Kiir vi è stato un tentato colpo di stato da parte di Machar e lo stesso presidente non esclude che vi possa essere lo zampino del Sudan del Nord per destabilizzare una nazione giovane, in quanto vi sono forti interessi economici in gioco. Machar, attualmente ricercato, in un’intervista telefonica rilasciata alla BBC asserisce che Kiir sta approfittando del conflitto etnico da sempre presente tra Nuer e Dinka per poter nascondere  il suo pessimo operato ed eliminare gli avversari politici. Insomma, il pieno caos.

Passiamo invece alle cose certe: 15 mila rifugiati e Toby Lanzer, a capo di UNIMISS (United Nations Mission in the Republic of South Sudan), parla di migliaia di morti civili. UNIMISS è la terza missione umanitaria di peacekeeping della storia dopo quelle della Repubblica Democratica del Congo e del Darfur. I caschi blu dell’ONU sono ora 12.500 e Ban Ki-Moon è stato molto chiaro nell’asserire che devono essere le due parti a trovare l’accordo di pace. Accordi di pace che si stanno preparando ad Addis Adeba in Etiopia e vedono anche l’auspicio pacifico della Cina, visto il recente aumento di presenza diplomatica, economica e dunque politica dei cinesi nel continente nero. Inoltre, anche gli USA hanno reso operativo un contingente dei marines in Uganda per il recupero di connazionali in caso di inasprimento degli scontri.

L’aspetto più controverso è invece sulle questioni petrolifere. La Repubblica del Sudan del Sud è molto ricca in termini di petrolio ma le raffinerie si trovano ancora nel Sudan del Nord. E questo potrebbe iniziare a dare un’idea: un paese molto ricco in termini di gregge che però non ha l’apparato industriale necessario per raffinarlo. Inoltre, il panorama etnico e politico è molto frastagliato, contro il presidente Kiir e quindi l’esercito nazionale sono schierati: il gruppo SPLA di Peter Gadet e i ribelli del SSLA, quelli del SSDA e il gruppo ribelle di David Yau Yau, composti da milizie Murle, tutti capeggiati dal fuggiasco e presunto golpista Machar. Quel Riek Machar che era passato alla cronaca mondiale come indipendentista, leader della guerriglia e marito dell’operatrice umanitaria britannica Emma McCune.

Nei conflitti africani è facile trovare uno scontro tra etnie che funge da catalizzatore per delle fazioni spesso capeggiate da esponenti politici che in realtà sono solo agenti di commercio di gruppi di interesse occidentali. Nel caso del Sudan del Sud non manca sicuramente il pretesto dell’oro nero ma le dinamiche e le ragioni dell’ennesimo conflitto nel cuore dell’Africa sono poco chiare. Sicure sono solo le violazioni dei diritti umani in un’area che dal 1955 vede il susseguirsi di guerra e morte. Questo in ogni caso va a dimostrazione che molti sono ancora i paesi vittime di un post colonialismo para-imperialista e che ora devono scontrarsi con una nuova corsa di conquista all’ultimo stato africano: quella tra USA e Cina.

Italo Angelo Petrone -ilmegafono.org