Nei giorni della protesta dei forconi o, come dicono, del “movimento del 9 dicembre”, si è detto di tutto, si è parlato a lungo soprattutto di un gesto, quello delle forze dell’ordine che tolgono il casco, dopo due ore di tensione, quando non vi è più ragione di tenerlo in testa. Una prassi, come è noto e come ci dicono sindacati e rappresentanti di polizia e carabinieri. E vogliamo crederci, perché se fosse stato davvero un segnale di condivisione delle ragioni della protesta sarebbe stato grottesco e grave allo stesso tempo.

Grottesco perché si tratterebbe di un gesto che in tanti in passato hanno atteso, in molte manifestazioni di cittadini che lottavano per i diritti di tutti e speravano nel poliziotto che decideva di mettersi dalla parte dei manifestanti, da cittadino, disobbedendo all’ordine di caricarli. Grave poiché in tal caso avrebbero dovuto spiegarci il perché di una scelta fatta proprio in una occasione simile e il perché avessero eventualmente valutato più importanti le ragioni di un gruppo disordinato di persone, senza un’idea chiara, senza una vocazione al bene collettivo, pieno di ultras e di estremisti di destra, facinorosi dalla spranga facile, perditempo e delinquenti.

Se non fosse stata prassi, infatti, avrebbero dovuto chiarire le motivazioni della maggiore validità assegnata a questa protesta rispetto a quelle degli studenti che manifestavano per garantire un’equa istruzione a tutti e un’università che premiasse il merito; o di quelle degli operai Fiat di Pomigliano che combattevano contro l’abbassamento del livello di tutela dei diritti del lavoro (e anche i poliziotti sono lavoratori); o di quelle delle mamme e dei ragazzi di Niscemi che chiedevano che la propria terra non venisse militarizzata e che la propria salute venisse tutelata; o ancora, di quei tanti giovani che sognavano un mondo migliore, privo di ingiustizie, e che provavano semplicemente a riposarsi dentro una scuola di Genova, la Diaz, adibita legalmente a dormitorio. Siamo convinti, in tutta sincerità, che si tratti davvero di una prassi, come molti funzionari hanno spiegato con estrema chiarezza.

Meno male, perché altrimenti sarebbe venuto spontaneo pensare che a qualcuno, dentro le forze di polizia, venga ancora più facile solidarizzare con chi ha il braccio destro alzato e parla di marcia su Roma che con chi indossa una kefiah o uno zaino da studente o contesta i potenti del pianeta riuniti in una città messa in gabbia. Ma è un discorso complesso e rischia di diventare superfluo, dal momento che le strumentalizzazioni dei soliti capipopolo sono state spazzate via immediatamente. Il fatto preoccupante, invece, è un altro, vale a dire che il ritorno dei forconi o delle forchette ci sta mostrando quanto sia fragile in questa fase il concetto stesso di ciò che è legale e ciò che non lo è. Sta mettendo a nudo la debolezza di quel principio di legalità a cui in tanti spesso fanno riferimento senza davvero comprenderne il senso.

La questione non è se bloccare una nazione sia legale o meno. Perché ci sono momenti nei quali, se uno Stato agisce in deroga a qualsiasi logica o regola, seppur legittimato democraticamente, rispettare quell’azione (e la legge che l’ha resa possibile) equivarrebbe a esserne complici e allora diventa quasi giusto non adeguarsi, pagandone anche le conseguenze. Il punto è un altro. Quali sono le rivendicazioni dei manifestanti? Quali sono le idee e quali le cose che essi realmente contestano alla politica? Tutto e niente. Che equivale a nulla. E anche quelle poche persone in buonafede che si sono unite a questa protesta diffusa e scomposta, non possono essere giustificate né possono addurre come scusante la loro condizione di sofferenza. Perché sanno (non fingano il contrario) che questa protesta è stata preparata con le minacce e proseguita con la violenza, con la costrizione, in maniera illegale.

Tutto senza che si intervenisse per consentire a chi non voleva aderire di continuare a lavorare per guadagnarsi il pane. I camionisti aggrediti in Puglia, i negozianti minacciati a Torino, le sigle di autotrasporto che non hanno aderito minacciate nell’agrigentino, i volantini che inneggiano alla mafia. Per non parlare degli slogan, dell’invito a bruciare i libri, delle infiltrazioni di tifosi, estremisti di destra, mafiosi (che come sempre hanno un ritorno positivo da questo caos), liberi di seminare il terrore tra la gente. Non accettano la non partecipazione, non accettano chi non la pensa come loro. La polizia toglie il casco per prassi dinnanzi ai manifestanti pacifici, che vivono il gesto come una vittoria, qualcuno inneggia persino a un possibile colpo di Stato, ma nella realtà altri manifestanti durante la mattinata, nella stessa e in altre città, a quei poliziotti volevano spaccare la testa e si è reso necessario rispondere, caricare con i caschi indosso.

Inutile pertanto fare distinzioni e strumentalizzare i gesti, bisogna semplicemente constatare che questa protesta segue logiche non legali, per i metodi utilizzati, per le minacce proferite, per l’annuncio di fatti eclatanti a seguito del voto di fiducia al governo Letta, bersaglio che accomuna tutte le anime di questo pseudo-movimento, a cui guarda caso la Lega, Grillo, la Santanchè e il Pdl plaudono, con Berlusconi che addirittura decide di ricevere una delegazione degli autotrasportatori, salvo poi annullarla per motivi di opportunità. Qualcuno, quindi, che sta dentro forze politiche che partecipano alla vita istituzionale, legittima l’illegalità. Altro che caschi tolti e forze dell’ordine. Qui siamo di fronte all’unione tra reazione e stupidità. Ed è un unione illegale, anche costituzionalmente.

Massimiliano Perna – ilmegafono.org