Non bastassero la crisi economica, la pochezza politica e il dissesto sociale. A complicar le cose ci si mette anche la natura, ma sempre con la complicità decisiva di una storia, quella italiana, macchiata da violenza ambientale continuata. La Sardegna, l’ennesimo disastro che si poteva evitare, se solo ci si decidesse a mettere in sicurezza questo Paese, se la si smettesse di trattare i territori come burro da sformare a piacimento e su cui affondare le lame della speculazione e del profitto, senza alcun rispetto, senza la minima tutela, passando sopra a tutto. Olbia e la Sardegna, come Genova o Messina, anzi Giampilieri e Scaletta Zanclea, due località che sembrano finite nel dimenticatoio, due esempi dell’inadeguatezza dei sistemi di prevenzione e di protezione civile italiani. Perché, forse qualcuno lo ha dimenticato, ma il rischio idreogeologico in quell’area affacciata sullo Stretto era già stato denunciato, in occasione del primo alluvione del 2007, e ignorato fino al 2009, a quei giorni tragici. E i morti furono 37 morti, 6 dei quali non sono mai stati trovati.

Eppure non se ne parla. Così come nessuno si mosse, né vi furono all’epoca maratone di solidarietà, trasmissioni televisive che raccoglievano risorse, interventi governativi, stanziamento di fondi, aiuti, soldati e protezione civile. Nulla. Fu una tragedia di serie B, come ebbi modo di scrivere, nonostante i morti siano stati tanti (più del doppio del disastro in Sardegna) e siano stati completamente cancellati interi comuni. I siciliani furono soli nello scavare tra fango e detriti, nel cercare di salvare qualcuno o di recuperare i cadaveri. Ma questa è una storia passata e nota. Non è mia intenzione mettere a confronto o, peggio ancora, in antitesi due tragedie dolorose immani e ugualmente terribili. Con l’identico carico di sofferenza, di destini beffardi, di atti eroici. Ciò che irrita, invece, è questo senso di inevitabile che non ha alcun fondamento, ma che è solo un modo per coprire le responsabilità, infilandole nella tasca più recondita di una retorica che qualcuno ha necessità di indossare e sfoggiare per coprire i segni spaventosi dell’inerzia.

Gli sfregi dell’arroganza e dell’indifferenza sbadigliata in faccia a chi, per anni, ha avvisato, ha cercato di far capire che se il territorio non viene difeso, se si lascia libero spazio a chi ne deturpa la fisionomia, ne stravolge i lineamenti, ne altera la natura, se non si frena l’inquinamento allora non si può che attendere che arrivino conseguenze simili. Inutile piangere, inutile mostrarsi scioccati e sorpresi. Non è una novità e questo Paese dovrebbe imparare a smetterla di trasformare in emergenza situazioni che si sarebbero potute evitare. È una costante, che riguarda tanti ambiti della società italiana. L’abitudine a intervenire sempre a posteriori, sempre quando quel ritardo è costato caro. Vite umane, danni materiali, umiliazioni. Di quei ritardi spesso si portano i segni. Cicatrici, ferite profonde come quelle delle terre devastate dalla pioggia e dal fango, piaghe infette come quelle delle zone avvelenate dai miasmi industriali o dai rifiuti tossici.

Ma non sono solo i territori o l’ambiente le vittime di quegli sfregi che derivano dall’abulia o dalla complicità di chi non si muove, non agisce, non previene e non sanziona. La nostra è una storia di recriminazioni e richieste che rimangono inascoltate fino a quando non è più possibile ignorarle, perché sbatti davanti al sangue, alle macerie, ai corpi schiacciati e rigidi. Siamo il Paese dei ritardi nell’attuazione dei piani paesaggistici, siamo i maghi della violazione dei vincoli di tutela. Siamo peccatori di “follia, stupidità e ingordigia”, come ha giustamente detto Renato Soru, ex presidente della Regione Sardegna, il quale proprio per difendere il suo piano paesaggistico, ostacolato dai partiti, fu costretto a dimettersi. Era troppo rigido e severo quel piano, perché impediva violazioni, permessi facili, scorciatoie burocratiche. Lo faceva in una terra che da sempre è preda di speculatori avidi, decisi a rapinare la bellezza per trarne profitto, per dare lusso a chi ama l’esclusività di quella bellezza, anche a costo di deturparne il volto.

E i fronti aperti sono infiniti. In tutti gli angoli della nazione. Taranto, Niscemi, Siracusa, Caserta, Fondi, Anagni, Roma, Val di Susa, Napoli e via dicendo. Storie di veleni, di inquinamento, di polmoni spappolati, di tumori che divorano vite come fossero acini d’uva, di malformazioni che mettono il marchio su un evento, la nascita, che dovrebbe riservare solo sorrisi e speranze e che invece si svolge dentro una realtà che non ammette illusioni né pause, ma solo rabbia e dolore. Di fronte a tutto ciò, ci sono le facce arroganti di chi nega, minimizza, cambia persino idea e diventa improvvisamente possibilista (folgorato sulla via del denaro?), dicendo che quegli impianti, quegli scarichi, quelle produzioni in realtà sono a norma, che si è dovuto ricredere, che non producono danni all’ambiente o alla salute. Oppure che quelle case sui letti del fiume o su terreni a rischio idrogeologico non sono pericolose per la sicurezza di chi ci andrà ad abitare.

Ti dicono che quel ponte è fatto secondo legge, che quella discarica non intacca le falde acquifere la cui acqua finirà nella gola e nello stomaco di migliaia di cittadini. Dopo una lieve risatina ti faranno capire, più o meno apertamente, che il problema sono gli ambientalisti, che sono solo degli esaltati, estremisti, pieni di infiltrati e di violenti. Intanto la gente si ammala e muore, a ogni età. Ma loro, i possibilisti e gli speculatori, non fanno una piega. Sono colpevoli o complici di omicidio plurimo e di fronte a tale prospettiva non provano alcun rimorso di coscienza. Se ne sentono troppi di questi personaggi, negazionisti, finti esperti che con aria sufficiente ti ribadiscono che non è come pensi, che è tutto a posto, che siamo solo allarmisti, che facciamo confusione, che siamo pressappochisti. Ti battono la mano sulla spalla e continuano a sorridere, annunciandoti con tono paterno che un giorno capirai, che hai solo bisogno di informarti meglio.

Ma capire cosa? Basta leggere le carte, sentire il racconto delle persone che hanno subito gli effetti drammatici della devastazione, del dissesto, dei disastri ambientali. Basta esaminare con obiettività i tassi di morte per tipologie tumorali collegate a quello specifico inquinamento, o i tassi di mortalità per calamità naturali e per totale e colpevole assenza di prevenzione. Loro sorridono, minimizzano e la gente muore. E non ci si riferisce solo ai politici. Ma anche e soprattutto a imprenditori, tecnici, funzionari, semplici cittadini, persino medici e professori. Esperti di distruzione che si spacciano per anime pie o menti illuminate. Non si comprende cosa abbiano da ridere. Ma riescono a farlo anche mentre il dramma è in corso.

Perché il profitto è come la cocaina. Li manda su di giri e li rende dipendenti. Le abbiamo viste e sentite quelle risate, le conosciamo, la loro eco funesta risuona ancora come un tuono improvviso in una notte serena. Così come conosciamo le fughe strategiche dei responsabili, il nascondersi dentro la retorica e l’impotenza presunta, nella speranza che questo popolo, che vive in una condizione più o meno consapevole di eterno rischio, non se ne accorga e rimanga silenzioso. A disperarsi. Con le lacrime agli occhi e gli sfregi nel cuore.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org