I sindacati nascono originariamente in Gran Bretagna prima della metà del 1800, nella terra della rivoluzione industriale, sotto il nome di Trade Unions e in breve tempo si diffondono in tutta l’Europa. A Livorno, il 16 giugno 1901, con il nome di Federazione Italiana Operai Metallurgici (FIOM), nasce il primo sindacato italiano. Con l’ascesa della nuova classe di proprietari dei mezzi di produzione e la nascita della religione del liberismo anche la classe operaia prende coscienza di sé, dando forma alle sue prime organizzazioni per la difesa dei propri diritti.

Da allora i movimenti per i lavoratori hanno vinto grandi battaglie, affermando la loro presenza nel mercato e diventando interlocutori obbligatori per qualsiasi forma di potere economico e politico. Per i nostalgici è una storia romantica e intensa, una storia di lotta. È invece una storia di libertà se scegliamo la prospettiva dello storico Benedetto Croce. Sicuramente è una storia di diritti, di minoranze ed eguaglianza. Le istituzioni per lavoratori ora si trovano in un momento cruciale, strette in una tempesta di retaggi di un nobile passato e logiche modernissime di produzione, di lavoro e di comunità. 

La globalizzazione invece non è ancora storia, però esiste  e sta producendo i suoi effetti. Per quanto se ne possa dire sul commercio, le materie prime e gli equilibri geopolitici, è proprio il lavoro uno dei fattori umani più determinati dalla nuova prospettiva mondiale. Il lavoro è connesso alla grande finanza, agli accordi doganali e alla formazione politica dell’Unione Europea, anche se spesso il tutto è delicatamente invisibile in quanto, materialmente, il lavoro, rispetto ai fattori elencati, appare ben lontano.

Quale è il ruolo che i sindacati vogliono assumere in questo nuovo processo globale? Le sfide che attendono un movimento che difende i lavoratori sono tante e tanti sono gli errori commessi dalle stesse organizzazioni. Partiamo dal fatto che, innanzitutto, il “lavoratore” inizialmente concepito come operaio, impiegato manuale, impiegato pubblico di grado medio-basso, piccolissimo imprenditore come negoziante e venditore e simili non ha più la stessa connotazione. Uno studio della Coldiretti, per esempio, mostra che al momento in Italia vi sono due cuochi per ogni operaio, esilarante per un immaginario che vede la massa di lavoratori uniti per una battaglia.

La disgregazione dei contratti di lavoro, la specializzazione eccessiva e improduttiva, uno sviluppo tecnologico supersonico insieme alla commistione del settore pubblico con quello privato (lo chiamano outsourcing) hanno reso la classe dei lavoratori molto divisa e difficilmente raggruppabile sotto un’unica entità. Nasce cosi il “mercato informale”, mercato del lavoro fatto da contratti di pochi mesi, contratti di “collaborazione” che assumono sigle tipo “cococo” o “cocopro”, che ricordano prodotti anonimi in offerta tra gli scaffali della grande distribuzione.

Il sindacato di oggi rischia di non sposare il suo tempo e restare reduce di un’epoca che ha terminato il suo cammino. Molti sindacati, anche grandi, continuano a portare avanti gli interessi di quella classe di lavoratori che venti, trenta o quaranta anni fa lottò per i suoi diritti, che ora è in pensione o quasi. Dimenticando che un’intera generazione, quella dei “trentenni”, chiamiamola così, che è la generazione che trainerà lo Stivale per i prossimi venti anni, è in una situazione precaria. Precariato che blocca la nascita di una famiglia, il risparmio e i consumi.

Quando poi Caparezza dice che “i colletti bianchi stavano in banchi di collettivi” vien voglia di lanciarsi in un’analisi sociologica degna di un bar dello Sport. In parte sarà anche vero, non lo si può negare, che molti sindacati si sono assopiti più che collusi, ma far di tutta l’erba un fascio non è il massimo. Ci sono anche persone valide, mosse da un senso di nazione e da patriottismo, cito non a caso Landini (e insieme a lui tanti altri nelle periferie), sempre pronto a difendere gli ultimi operai, se non anche la Costituzione, diventando così lui l’ultimo dei romantici. Nei nostri tempi il lavoro non è più una merce nazionale, ma mondiale. L’imprenditore che fugge di notte con i macchinari in Romania lo fa perché lì, dove nessun sindacato ha mai combattuto, un lavoratore lo paghi a simpatia. Per non parlare di altri paesi come la Cina.

“L’emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera della classe lavoratrice stessa”, diceva Marx, colui che ai lavoratori ha regalato una filosofia e una speranza e a qualche dittatore una scusa perfetta per detenere il potere. Forse i lavoratori di tutto il mondo devono nuovamente unirsi, cercando di evitare questo mosaicismo sociale, liquido, che continua a disgregare e confondere i deboli e unire i pochi potenti in oligopoli globali. Occupy Wall Street, pioniere di questo pensiero di rinascita, ha riassunto il tutto con un numero e poche parole: We are the 99%. Tocca a noi ora prenderne coscienza.

 Italo Angelo Petrone -ilmegafono.org