La rete del traffico internazionale di esseri umani, il sistema di sfruttamento e vessazioni che si appiccica alla pelle dei migranti che partono alla volta dell’Italia e delle sue coste meridionali, non è affare solo di organizzazioni straniere, egiziane, libiche, nigeriane, ecc. Come in tanti sapevamo, c’è la mano della criminalità organizzata, delle mafie italiane. Registi, basisti, carcerieri e perfino scafisti. Uomini senza scrupoli pronti a gestire la “merce umana” recapitata dal mare, come fossero pacchi di sigarette di contrabbando o involucri di droga da smerciare e immettere nel territorio nazionale. Perché come merce vengono trattati, stipati in magazzini oscuri, carceri improvvisati e terribili che si trovano spesso a due passi dalle nostre case e vite quotidiane.

Nel 2011 la polizia siracusana ha trovato 22 migranti rinchiusi da una settimana dentro la Tonnara di Santa Panagia, alla periferia nord di Siracusa, prigionieri per non aver ancora saldato le spese di un viaggio massacrante partito da Alessandria d’Egitto e terminato proprio a Siracusa. Lo apprendiamo da una inchiesta di Daniele Darco e Luca Ferrari, pubblicata su Repubblica, con tanto di video girato dalle forze dell’ordine che hanno fatto irruzione nella struttura abbandonata per liberare i profughi (leggi e vedi il video cliccando qui). La Tonnara si trova alle spalle di viale Santa Panagia, un vialone lungo che scorre tra i palazzi, a metà del quale si erge il Tribunale, il luogo della legge. Dietro le ultime file di palazzi in fondo al viale, appena sotto la Tonnara, vi è la pista ciclabile, luogo di passaggio domenicale (e non solo) di famiglie, ciclisti e amanti del footing.

Giusto per rendere l’idea di come l’inferno non sia un luogo lontano da noi, ma al contrario ci riguardi, faccia da controcanto funesto alle nostre notti tranquille. Lasciamo perdere i commenti sul video, perché per quanto sia utile far sapere e vedere, personalmente non mi piace che si sbattano in faccia a dei disperati una torcia e una videocamera. Non mi sono piaciuti nemmeno due commenti sulla stazza di un egiziano che non riusciva a sedersi con “il culo a terra”, come dice la voce di un poliziotto fuori campo. Non mi piace che si facciano zoomate sui volti di queste persone spaventate, stremate. Anche perché probabilmente sai che tra loro ci sono profughi, individui in fuga da guerra e problemi politici, che andrebbero protetti e non esposti, mostrati.

Sarebbe un po’ meno pesante se quelle immagini girate durante un’operazione non venissero poi diffuse sui media e in rete senza oscuranti o altri strumenti di protezione dell’anonimato. Mi viene da pensare a come reagiremmo noi in una situazione del genere e a come “ci girerebbero” di fronte a una videocamera e ad una torcia puntate sugli occhi. Una questione di delicatezza e di sensibilità. Ad ogni modo, quello che emerge da questa storia (e dalle inchieste) è il senso di ipocrisia che pervade tutti i ragionamenti che escono fuori dai tanti discorsi e dalle notizie riguardanti l’immigrazione e, in particolare, gli approdi via mare. Persino nei confronti del crimine nostrano diventiamo ancor più indulgenti del normale, pur di fare in modo che tutto ciò che riguardi gli sbarchi, compresa la responsabilità dei clan mafiosi autoctoni, non sia affar nostro.

Abbiamo finto di credere che gli scafisti, i trafficanti fossero solo stranieri, che fosse questione altrui non nostra. Ci siamo convinti di essere tutti per bene, un popolo di “accoglienti”, tutti brava gente che, quando si lascia andare a commenti pesanti e pieni di ignoranza e chiusura, premette sempre di “non essere razzista”. “Però”, si aggiunge subito dopo. Come fosse una corazza, un paravento da piantare sopra la propria vena razzista. Abbiamo giustificato tutto, abbiamo dimenticato le quattro mafie che non avrebbero mai potuto farsi scappare un affare comodo e crudele sulle proprie coste. Centinaia di migliaia di uomini disperati, donne, minori da afferrare, spogliare di ogni avere e poi abbandonare oppure immettere nei circuiti dello sfruttamento, nel tessuto economico di un Paese che vive sotto il controllo dei clan.

Nello scenario di indifferenza dentro il quale tutto ciò avviene, sembra non toccare più di tanto la vicenda delle centinaia di minori spariti in Sicilia. Minori arrivati sulle nostre rive e poi volatilizzati, scomparsi da centri di accoglienza inadeguati e ai limiti della legalità, fuggiti o visti qualche volta salire in macchine ignote. Forse per proseguire il viaggio verso le frontiere, verso i paesi nei quali volevano sin da principio arrivare o forse finiti nelle grinfie di organizzazioni spietate. Non è dato saperlo. Quel che si sa, di sicuro, è che ciò è la diretta conseguenza di una gestione che non è sempre colpa dell’Europa, come qualcuno dice, ma nostra, solamente nostra, a livello nazionale e anche a livello di istituzioni locali. Che si lamentano, ma non ne hanno diritto (tranne, in parte, nel caso di Lampedusa, per la situazione particolare in cui si trova l’isola).

Perché le ruberie, le assegnazioni di appalti, le autorizzazioni, i convenzionamenti, la gestione dell’accoglienza in maniera disordinata ed emergenziale, senza alcuno spazio per una programmazione che negli anni sarebbe stata ampiamente possibile, sono solo responsabilità delle istituzioni locali, dei comuni, delle questure e delle prefetture. Che se ne sono infischiate dei migranti, dei loro diritti, di ciò che subivano dentro questo Paese. Anzi, spesso si sono trasformate in complici sadici del loro dolore e delle privazioni. Perché l’inferno non apparteneva che a loro. Questa era la logica. Da siracusano, la cui casa in linea d’aria dista qualche centinaio di metri da quella tonnara, non riesco a non pensare con dolore e rabbia alle notti di stenti e terrore passate da 22 profughi egiziani, nel silenzio, nel buio, tra i pugni delle fame e i fendenti della sete, a due passi da me.

E anche se non ero a Siracusa in quei giorni, perché avevo già preso la via del nord, me ne vergogno. Così come provo vergogna per tutti quei miei concittadini che continuano a non capire e a vivere sentendosi lontani, al riparo da quell’inferno. Come se la storia fosse un quadro di certezze. Come se questa sicurezza abbia una durata certificata in eterno. Come se quella pista ciclabile da cui si vede il profilo incantevole di Ortigia fosse un percorso esterno alla realtà. Basta aprire gli occhi e leggere che non è così e che la realtà, quella più atroce, è lì in mezzo a quel percorso. Che aspetta di essere liberata e di trovare una mano tesa, un cuore aperto, ma soprattutto un cervello incazzato che si metta a urlare, chiedere verità e giustizia, lottare per ottenerle. Prima che sia troppo tardi.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org