Cresciuto allʼombra della malapianta, di cui già giovanissimo è divenuto un ramo importante, Luigi Bonaventura, ex reggente della potente cosca Vrenna-Bonaventura di Crotone, oggi, dopo la sua scelta di parte, è un collaboratore di giustizia, definito altamente affidabile, uno che con le sue dichiarazioni ha consentito numerosi arresti e contribuito a tante operazioni e ad importanti inchieste contro le ʼndrine. Bonaventura è un collaboratore che non solo confessa volontariamente le sue responsabilità e racconta quel che sa ai magistrati, ma che denuncia anche ciò che non funziona nel sistema di protezione. E lo fa a suo rischio, rivelando pubblicamente il luogo nel quale lui e la sua famiglia sono stati trasferiti: Termoli, provincia di Campobasso, regione Molise. Un luogo che si pensa essere tranquillo, una località nella quale anche altri collaboratori sono stati trasferiti. In realtà, lʼapparenza inganna, perché quella città e quella provincia, come egli denuncia e come le operazioni di polizia dimostrano, sarebbero il punto nevralgico di interessi particolari in unʼarea poco distante dai territori controllati da camorra, sacra corona e ʼndrangheta.

Una zona, quella della riviera molisana, dove le cosche calabresi, in particolare crotonesi, si riuniscono per organizzare e gestire il narcotraffico che va da Rimini fino ai confini con la Puglia. Non solo, la provincia di Campobasso è stata il teatro di molti fatti oscuri della storia italiana. Ultimamente, di Bonaventura si è sentito molto parlare sui media, sia perché è uno dei pentiti che ha rivelato il progetto mortale che la ʼndrangheta aveva preparato per Giulio Cavalli, autore teatrale ed ex consigliere della Regione Lombardia, sia per il suo appello affinché si assicuri a lui ed alla sua famiglia protezione, con una scorta e soprattutto con lo spostamento da Termoli e il conseguente trasferimento in una località segreta fuori dallʼItalia. In Italia, infatti, non esistono regioni sicure, soprattutto per chi come lui è nel mirino e ha ricevuto intimidazioni che sanno di condanna a morte.

Luigi Bonaventura, con precisione e scandendo bene date, eventi e nomi (alcuni dei quali non facciamo per rispetto di inchieste ancora in corso), tra una sigaretta e unʼaltra si racconta al Megafono e parla di tutto ciò e di altro, partendo dal suo passato, dallʼinfanzia, poi la scalata fino ai vertici della sua ʼndrina, gli omicidi, fino al ravvedimento, alla scelta di dissociarsi e collaborare, con tutto quel che ne è derivato. Per arrivare, infine, alla situazione di oggi, al malfunzionamento del sistema di protezione, alla responsabilità della politica, alla sua condizione di pericolo. Lo fa in una lunghissima intervista, ricca di contenuti e di punti inquietanti che meritano ascolto e approfondimento, rilasciataci qualche giorno fa e della quale, di seguito, vi proponiamo la prima parte, invitandovi a non perdervi la seconda, che potrete leggere, sempre su queste pagine, nel prossimo numero di domenica 3 novembre.

Chi era Luigi Bonaventura prima del pentimento?

Era il primogenito di una famiglia di ʼndrangheta, destinato a diventare ʼndranghetista per diritto di successione. Se sei maschio la prima carica che ricevi, infatti, è quella di giovane dʼonore. Mi chiamo Luigi come mio nonno paterno, anche se in realtà dovrei chiamarmi Luigi Vrenna, perché mio nonno è Luigi Vrenna, detto u Zirro, ed è stato uno dei boss più importanti e potenti della Calabria.

Perché allora il suo cognome è Bonaventura?

Perché mio nonno ebbe almeno tre compagne e una serie infinita di concubine. Mio padre nacque dalla seconda compagna, solo che siccome il nonno era ancora sposato con la prima moglie, allʼepoca il cognome Vrenna non ce lo hanno voluto dare. Dunque, la famiglia Vrenna è composta dai Vrenna e i Bonaventura, che sono però tutti quanti discendenti di Luigi Vrenna u Zirro.

Comʼè lʼinfanzia di uno ʼndranghetista?

Sono stato subito educato con una cultura mafiosa, subendo una certa violenza psicologica e fisica, anche nellʼaddestramento, nellʼindottrinamento. Ho un flash, che non so se sia vero: allʼetà di 2 anni e mezzo, quando scoppia una delle faide che riguardano la mia famiglia, ammazzano mio zio. Ricordo, come se lʼavessi vissuto, donne che si strappavano i capelli, uomini che annunciavano vendetta, pianti, ecc. Nascendo in una famiglia di ʼndrangheta con una cultura durissima, tramandata di generazione in generazione, con una faida già in corso, si capisce già come puoi crescere. Non hai molta scelta. Ricordo tanta violenza su di me. Fino a 10 anni ero terrorizzato, avevo il terrore nel cuore, anche di mio padre, di cui temevo persino lʼespressione.

Ricorda la prima volta che ha sparato? Chi vi addestrava?

Non so se fu la prima, ma è quella che ricordo bene. Avevo 10 anni, era Capodanno, e sparai fuori dalla finestra. Mi ricordo quella volta perché nello sparare avevo lasciato il pollice sopra il carrello, quindi, dopo che feci partire il colpo, il carrello andò con forza sul pollice e mi fece male. Lʼaddestramento avvenne tra i 12 e i 14 anni. Mi addestravo con mio padre e con gli zii. Usavamo tanti tipi di armi (kalashnikov, doppiette, mitragliette, pistole, ecc.). Un poʼ come la scena dei due ragazzi che provano a sparare in “Gomorra”. Anche noi andavamo in una località alla periferia di Crotone, sul mare, che d’inverno era deserta. Miravamo a bottiglie, bidoni, ci insegnavano a sparare.

Poi, una volta addestrato ha cominciato subito ad agire?

No, nella ʼndrangheta, dopo questo addestramento, ti spediscono fuori per farti conoscere il mondo, per abituarti alla lontananza della famiglia, per mantenerti invisibile, riservato. Perché tu, in determinate famiglie, non devi commettere crimini, devi mantenerti integro per poi essere a disposizione al momento utile. Andai qualche anno al nord, a Vicenza, poi in Emilia Romagna, a Bologna. La ʼndrangheta, a differenza di quel che si crede, è pensante, non agisce in maniera stupida. Stare fuori, dove sei comunque impiegato in aziende riconducibili sempre alla famiglia, ti permette di arricchire la conoscenza e di capire i modi, anche per introdurti meglio nel tessuto delle regioni in cui ti trovi a vivere. La ʼndrangheta, si sa, agisce in varie regioni: dalla Lombardia allʼEmilia Romagna, Veneto, Liguria. Poi sono andato in Toscana.

La sua famiglia, in Calabria, cosa gestiva?

A quel tempo la mia famiglia cominciava a riorganizzarsi, perché la faida ci aveva messo in ginocchio, tra arresti, morti e così via. Per riorganizzarsi bisogna investire e allora si punta su una serie di attività che oggi sono diventate note a tutti: società calcistiche di notevole spessore, smaltimento dei rifiuti (in Calabria ci sono le più grandi discariche dʼEuropa), movimento terra. E ci sono riusciti. Oggi la famiglia Vrenna-Bonaventura è ancora salda. Nonostante i collaboratori eccellenti che ci sono stati (dopo di me si sono pentiti altri affiliati) a Crotone comanda ancora. Si è indebolita solo lʼala militare, ma i beni sequestrati sono stati pochi e le attività sono tutte floride.

In tutta la Calabria o solo a Crotone?

Io parlo di Crotone. Il Crotone Calcio è della famiglia Vrenna. E tante altre attività, come la Columbra, che è la discarica più grande d’Europa. Ci sono delle cose che sono anche paradossali. Te ne dico una: la mia famiglia non solo ha ricavato negli anni guadagno dal traffico di cocaina, ma anche dai sequestri di cocaina fatti non solo alla cosca Vrenna-Bonaventura, ma in tutta lʼarea della Calabria. 

Cioè?

La cocaina sequestrata va smaltita. Quindi viene messa in auto blindate e arriva in un bruciatoio dove vengono bruciate due-tre tonnellate di cocaina. Per ogni tonnellata smaltita, i gestori del bruciatoio percepiscono molti soldi.

Lei mi vuole far credere che, in Calabria, la cocaina sequestrata dallo Stato finisce in un bruciatoio della ʼndrangheta?

Di proprietà della mia famiglia. Si tratta della discarica di Salvaguardia Ambientale Spa, società del gruppo V&V, ossia Vrenna&Vrenna… Divertente vero?

No. Direi che sarebbe sconcertante…

La mia famiglia si occupa anche di smaltire rifiuti speciali. Non solo in Calabria. Si arriva persino in Abruzzo, dove 2 anni fa un imprenditore ha denunciato una cosa che è poi giunta fino alla Camera dei Deputati: la mia famiglia ha preso un appalto per 45 milioni di euro per i rifiuti speciali di tutto lʼAbruzzo, a un prezzo superiore a quello fissato per la gara.

Torniamo allʼinizio della sua “carriera” mafiosa. Al momento in cui la sua cosca si stava riorganizzando, mentre Lei si trova in Toscana.

Sì. A Crotone, mentre noi cerchiamo di fare gli investimenti necessari per risollevarci, si presenta un problema che si chiama Giuseppe Sorrentino, fiancheggiato dai cirotani, cosca con cui avevamo avuto spesso dei problemi, il quale voleva imporsi come capo società in città. Ciò limitava la mia famiglia, perché se non hai la supremazia assoluta sei anche soggetto a dei limiti. Così, nel 1990 vengo richiamato in patria. Torno dalla Toscana e vengo assunto in una azienda nostra, la Mida, riconducibile al gruppo V&V. La mia presenza serviva perché dovevo proteggere la mia famiglia. A novembre compiamo la famigerata strage di piazza Pitagora, dove vengono uccisi Sorrentino e altri due, e altre persone rimangono ferite. Questo è il fatto più eclatante.

In che modo prende parte alla strage?

Avevo il ruolo di staffetta e allo stesso tempo dovevo essere pronto a sparare insieme ad altri nel caso in cui le vittime fossero riuscite a sfuggire al commando. Insomma, li avevamo accerchiati. Li abbiamo uccisi in piazza perché doveva essere simbolico, dimostrare che non si poteva sfuggire alla nostra famiglia. In quel periodo ho preso parte anche ad altre azioni, non solo verso persone, ma anche strutture, mezzi, ecc. Alcuni non andati a buon fine. Da quel momento in poi ho fatto la vita del latitante. Nel 1991, ci venne chiesta una ulteriore prova di coraggio, che non consisteva  semplicemente nellʼammazzare uno dei bersagli indicati, ma anche nellʼorganizzare tutto di sana pianta. Tu avevi lʼordine e poi dovevi organizzare ogni cosa. Compiere lʼazione, non lasciare tracce e rientrare a casa. Avevamo 3 o 4 bersagli da colpire, che ci erano stati indicati. Dovevamo eseguire e solo alla fine dare spiegazioni.

E siete riusciti a uccidere queste persone?

Questi soggetti abitavano in varie zone che noi pattugliavamo al fine di scovarli. In una di queste perlustrazioni ne troviamo uno. Scendo e compio quello che dovevo compiere. Faccio tutto da manuale, come mi avevano insegnato, con la massima lucidità e precisione, non sbaglio niente. Tanto è vero che questo omicidio viene alla luce solo di recente con le mie dichiarazioni. E pensare che risale al 1991. Da quel momento in poi si susseguono altre cose, le estorsioni, la latitanza volontaria. Da quellʼomicidio inizia davvero la mia scalata verso la reggenza. Perché la reggenza non si prende solo per successione (anche se essere primogenito o essere nipote di un nonno potente ti aiuta), ma ci vogliono anche i “meriti”, che attengono non solo allo sparare, ma anche a come ti comporti e pensi.

Quando arriva a essere reggente della sua cosca?

Nel 1990-91, a soli 19 anni, sono già il braccio destro di mio zio Gianni Bonaventura, che era reggente di Crotone. Lo seguo nella latitanza, vado in missione con lui, nonostante fossi un ragazzino e avessi bruciato le tappe. Io, nella mia ottica, credevo che quello che facevo fosse normale, perché lo facevano pure gli altri. Allʼetà di 30 anni, nel 2001, sono diventato reggente della mia famiglia. Ma io cercavo di fare un passo indietro, perché diventare reggente vuol dire assumersi più responsabilità.

Come viene decisa la carica di reggente? Con quali meccanismi?

Feci un paio di colloqui nel carcere di Parma con mio zio, nellʼottobre del 2001. Lui mi disse che dovevo assumere il comando e diede disposizioni in tal senso, dentro il carcere e anche fuori tramite il figlio, a tutti i boss più importanti. Mi disse che potevo prendermi anche altre cariche e, nel 2002, prendo quella di sgarro. Lo sgarrista era una volta la massima carica. Con lo sgarro tu puoi gestire la società, puoi fare tutto. In più, mio zio mi aveva concesso una carica speciale. Lo sgarrista di solito dovrebbe comandare la minore, ma io potevo anche entrare nella maggiore. La carica particolare datami da mio zio mi permetteva di agire secondo la mia convenienza: entravo nella maggiore, dove potevo venire a conoscenza dei livelli superiori (massoneria, politica, ecc), e poi mi tiravo fuori per sottrarmi alle responsabilità di questa conoscenza. Così ho fatto giuramento per lo sgarro.

In cosa consiste il rito?

Per lo sgarro si usa la croce, solo che te la fanno sul pollice, allʼesterno. Ti fanno un incisione a croce con un pugnale e poi fanno scorrere il sangue su una immaginetta di San Michele Arcangelo. La incendi. E il giuramento è fatto.

E di lì la carriera criminale. Come è arrivato alla scelta di dissociarsi e collaborare? Cosa lʼha determinata?

Dobbiamo fare un passo indietro. Ritengo che la mia completa conversione parta dal matrimonio tra mio padre e mia madre. Per un caso di fortuna, o destino, mio padre si sposa per amore e non per matrimonio combinato per risanare vecchie ruggini o per rafforzare il potere. Accade che mia mamma viene da una famiglia che è lʼesatto contratrio della mafia. Così mentre la parte di mio padre mi dà questa educazione, questo addestramento ‘ndranghetista, mia madre e la sua famiglia provano a mettere qualche tassello buono. Ovviamente tutto questo ha un prezzo, perché mia madre in quel periodo tante volte ha preso botte. La cultura dominante di mio padre, cultura mafiosa, è quella che mi ha cresciuto e ha lasciato poco spazio ad altre strade. Un secondo elemento  importante è che anche io mi sposo per amore. Sulla base del mio potere, impongo alla mia famiglia la decisione di sposare chi voglio io. Anche la famiglia di mia moglie è lʼesatto contrario delle mafie. Da sposato reggo la cosca per 5 anni. Mia moglie non sapeva completamente tutto di me, perché io quando entravo a casa la ʼndrangheta la lasciavo fuori dalla porta. Intanto, nascono i miei figli. Cʼè stato un periodo, nel 2005, che la notte passeggiavo avanti e indietro nel corridoio e ogni tanto mi affacciavo nella stanza da letto dove dormivano i miei bambini e mia moglie e non riuscivo a prendere pace, perché sapevo di avere il loro futuro nelle mie mani. Avevo i soldi, casa, beni, attività, però sentivo il peso di avere il loro futuro nelle mie mani. E non riuscivo a capacitarmi di questa cosa.

Cosa fece?

Parlai con mia moglie, raccontandole molte cose che non sapeva e le comunicai le mie intenzioni di dissociarmi, spiegando che non volevo rubare il futuro ai miei figli, che non volevo che avessero unʼinfanzia come la mia. Mia moglie si mostrò un poʼ incerta, perché lei non comprendeva certi meccanismi di ʼndrangheta, però da quel momento in poi mi ha sostenuto fortemente in ogni mia scelta. A quel punto, pensai di dover affrontare mio padre. Sapevo che era rischioso, ma non volevo agire di nascosto. Gli dico che una delle cose su cui è fondata la ʾndrangheta è lʾonore. E gli chiedo in cosa consiste, dove sta questo onore: nel sapere di rubare il futuro ai tuoi figli (e nel suo caso ai nipotini) o ai figli degli altri? Dove sta lʾonore se noi sappiamo già che a questi ragazzini stiamo rubando lʾinfanzia, che domani ammazzeranno o verranno ammazzati o vivranno in un bunker o in una galera? Gli chiesi di darmi una risposta. Lui non fece una piega, ne parlò con la famiglia e, siccome da noi certe cose si devono lavare allʼinterno, pensarono di ammazzarmi. Prima mi minacciarono moglie e figli nel caso non avessi fatto quello che dovevo fare (perché dovevo ancora completare la faida, uccidere due nemici per una cosa di 30 anni  prima). Poi, vari agguati, due di questi ad opera di mio padre.

Suo padre cercò di ucciderla?

Due agguati in due giorni. Il secondo il 19 settembre 2006, proprio il giorno di Crotone-Juventus. A 12 ore dal primo agguato avvenuto la sera prima, sempre nello stesso posto, mio padre me ne fa un altro. Per fortuna, trovandomi armato, rispondo al fuoco, lo ferisco e mi salvo. Riguardo a mio padre cʼè un altro elemento importante nella mia scelta. Nel 1991, quando compio un assassinio, succede qualcosa di strano dentro di me. Che non mi era mai accaduto con nessuno. Eseguito lʼomicidio, rientro a casa e vedo negli occhi di mio padre e dei miei zii un compiacimento speciale. Dei miei zii non mi interessa tanto, ma mio padre mi segna più di tutti, perché quando vivi e cresci in questa situazione, massacrato, a cinghiate, a bastonate, a nerbate, a schiaffi, tu paradossalmente sogni e cerchi per tanto tempo il compiacimento della tua famiglia e di tuo padre. Allora un giorno questo arriva, come arrivò per me in quel momento: io lo assecondai, feci finta di niente, ma non compresi quel compiacimento nei suoi occhi, di fronte ad una delle cose più misere che l’essere umano possa fare, come quella di ammazzare un altro se stesso.

Rimase deluso da quell’atteggiamento?

Ricordo che mi rimase dentro un malessere di cui poi non parlai con nessuno, avevo paura di parlarne anche con me stesso, perché sono debolezze che non devono trasparire in uno ʼndranghetista. Allora ripercorrendo questo ricordo, nel 2005, pensavo che io avrei cresciuto un figlio allo stesso modo, magari non gli avrei mai dato legnate come mio padre ha fatto con me, però vuoi o non vuoi li avrei educati alla vita di ʼndranghetista. Rivivevo quel giorno, mettendo me al posto di mio padre e mio figlio al mio posto, e pensai a come io avrei trovato il coraggio di dirgli bravo. Non ci sarei riuscito. Pensavo che avrei voluto dire bravo a mio figlio per il fatto di lavorare onestamente, di trovare un bel lavoro, di vivere dignitosamente. Questo mi ha spinto a dissociarmi. La lotta che sto facendo oggi è anche per evitare che ci siano altri criminali, che la ʾndrangheta e le mafie continuino a partorire altri bambini soldato.

Dopo aver maturato la decisione come è arrivato al contatto ufficiale con le istituzioni?

Contattai un mio amico che era figlio dell’ex procuratore capo di Crotone e gli chiesi se poteva consigliarmi su come fare, sui modi con cui rivolgersi, perché tu vieni da un’altra cultura, sei da solo come un cane, sulla tua strada, non sai nulla di come si fa. I suoi consigli furono preziosi. Il 6 aprile del 2006, poi, subii una perquisizione dall’allora capo della squadra mobile Angelo Morabito, dall’ispettore Strada e dal sovrintendente Eugenio Lucente. Durante la perquisizione mi fermai a parlare con loro e dissi chiaramente che volevo collaborare e che cercavo di capire come fare, cosa lo Stato poteva offrirmi, se poteva proteggere i miei figli soprattutto. Dopo, arriva lʼagguato fattomi da mio padre, il quale è costretto a consegnarsi perché ferito e pensa bene di denunciarmi, dicendo che sono andato io sotto casa a sparargli. Così per me scatta l’arresto, a dicembre. Finito in prigione, mia moglie mi diceva di collaborare, ma io ho deciso di stare altri due-tre mesi a pensare.

Perché non subito, visto che dentro sé aveva già deciso da tempo e si era dissociato?

Perché lì dentro stavo bene; lontano da tutti potevo riflettere meglio su quello che dovevo fare. Dopo 3 mesi mando a chiamare il dottor Pier Paolo Bruni della DDA di Catanzaro, che sapeva già della mia volontà di collaborazione da prima del mio arresto. Lo contatto e gli dico di essere pronto a collaborare con la giustizia. Ho trovato un magistrato eccezionale. Parlai con quest’uomo e per la prima volta percepii la vera essenza di Stato, di legalità. E dico la verità: l’ho percepita anche con altri magistrati, visto che ho avuto a che fare con dieci procure. Allo stato attuale posso dire che io lo Stato l’ho trovato solo nella magistratura.

Il suo avvicinamento alla collaborazione è precedente allʼarresto. Una scelta volontaria.

Sì, non è stato uno scambio. Una controproposta seguita ad un arresto. Quando io comincio a collaborare, non avevo nemmeno un giorno di condanna. E allo stato attuale non ho ancora un giorno di condanna definitivo, anche se comunque ci sono le mie ammissioni e quindi le condanne definitive arriveranno molto probabilmente il prossimo anno. Dovrebbe essere una vittoria per lo Stato e la società civile quando un reggente di una famiglia mafiosa decide autonomamente di dissociarsi e collaborare, non solo perché contribuisce a degli arresti, ma anche per una ragione simbolica, perché lo Stato recupera il pezzo grosso di una famiglia importante che passa da questa parte. Dovrebbe diventare esemplare, perché è una vittoria dello Stato utile a far capire agli altri ʼndranghetisti che il crimine non conviene, che è meglio passare dalla parte della giustizia.

Anche perché le sue dichiarazioni sono state alla base di operazioni importanti.

Sono state fatte operazioni fondamentali, arresti, ergastoli, in Emilia Romagna, in Calabria, in tante località. Io sono stato definito altamente attendibile, anche se della mia attendibilità non devo parlare io, basta chiedere ai magistrati.

E questo senso di vittoria lo ha percepito attorno a sé?

No, anzi è accaduto che, paradossalmente, il fatto di essermi dissociato, di essere un collaborante volontario è diventato un’aggravante per quella parte di politica collusa, perché di questo stiamo parlando. Naturalmente specifichiamo, sia per la forma e sia perché effettivamente è così, che è solo una parte. Ad ogni modo, per quella parte collusa, se tutti si dissociassero e collaborassero volontariamente, sarebbe la fine. I pesci piccoli li vogliono, ma se sei un collaboratore di spessore, che conosce certi livelli, trovi solo l’inferno per te e per la tua famiglia. Perché non vogliono che si parli anche di loro. Così ci troviamo dentro a un programma di protezione che non funziona e non funziona volutamente, per volontà precisa di una parte del mondo politico, perché nel programma ci sono tanti che lavorano bene, ma se la politica non gli dà gli strumenti, cosa vuoi che facciano? Si parla tanto di persone come il generale Dalla Chiesa, il dottor Falcone e il dottor Borsellino e non ci accorgiamo che in questi anni stanno completamente distruggendo quello che loro hanno creato, costruito. Oggi siamo dinnanzi a un programma di protezione che non esiste più, che non funziona, con i collaboratori di giustizia lasciati a sé, attaccati, discriminati. Si sta distruggendo tutto quello in cui quelle persone credevano e per cui sono morte. Loro dicevano che i collaboratori sono preziosi. D’accordo, sono ex criminali. Ma allora considerateli almeno come una medicina amara, ma necessaria.

Non perdete la seconda parte dell’intervista: la potrete leggere nel prossimo numero, che sarà on-line domenica 3 novembre.

 Massimiliano Perna -ilmegafono.org