C’era un tempo nel quale sognavo e i miei sogni avevano un unico scenario, ripetitivo, ossessivo: scrivere, raccontare per esprimermi, per far sapere, per far vedere. In parte l’ho realizzato, anche se ho capito, a un certo punto, che non ci sarebbe stata troppa speranza, in Italia, di farlo diventare il mio lavoro, perché i contratti sono una chimera e da freelance, soprattutto quando sei lontano da casa, non riesci a mettere da parte abbastanza per campare. Pazienza, ci si ritaglia uno spazio, nel tempo libero, di notte, nei momenti che magari potrebbero essere dedicati al riposo, e si continua a scrivere, in qualche modo. Perché è quello che non ti stanca mai, che non smetteresti mai di fare. Ma intanto devi trovare una via alternativa, un lavoro più stabile, accettando comunque di vivere nel mondo della flessibilità.

Siamo in tanti, nella mia generazione, a vivere questa condizione. Ci si sbraccia, si mette in campo la propria professionalità, quello che sai fare, quello che hai studiato all’università; non sarà il tuo sogno ma almeno provi a fare qualcosa che abbia un senso per te e per i sacrifici fatti sui libri. Spesso per riuscirci lasci tutto, scommetti su di te, sei determinato e allora, da qualche parte, riesci a trovare un impiego, un pezzo di strada da percorrere senza troppe frustrazioni. Ti pagano, ti apprezzano, impari, fai esperienza, cresci. Nel frattempo vivi e aumenta anche l’età. E i tuoi sogni, i nostri sogni? Quelli a un certo punto si fermano, o meglio rallentano, si parlano tra loro e si danno appuntamento ogni tot di mesi per capire se rinnovarsi o meno.

Eppure tu ce li hai ben chiari, sai che sono necessari, che ne hai bisogno, ma niente da fare. Di sei mesi in sei mesi: i sogni della mia generazione sono a progetto e anche se sono resistenti, semplici e onesti devono essere valutati ogni volta. Ti seguono, ti somigliano, ti osservano. Sono come te. Che sei a progetto. Una, due, tre volte, poi ti stanchi e vai altrove, in un luogo nuovo, dove ricominci. Sempre a progetto. Una situazione a cui ci si abitua per un po’, fino a quando non sta per scadere nuovamente il contratto e si rimane lì ad attendere cosa ne sarà del nostro futuro, anche quando ci sono le rassicurazioni, gli attestati di stima.

A un certo punto, può anche accadere che un governo nato dal letame annunci di voler provare a diventare un fiore, anche piccolo, un bocciolo dentro il quale sembrerebbe nascondersi una ricetta suggerita dall’esigenza di un Paese distrutto dalla disoccupazione e dal precariato, da una crisi che travolge i cittadini, le loro speranze, il loro diritto di vivere dignitosamente. Per giorni abbiamo sentito parlare del “decreto fare”, che doveva contenere qualcosa di serio e utile, soprattutto in tema di lavoro. Per giorni, personalmente, ho provato a convincermi che quella gente seduta lì in alto non fosse la stessa che ha sputato in faccia all’Italia per anni; ho creduto che, per una volta, costretta dalla situazione terribile, non più rinviabile, non più sottoponibile ai tentennamenti e ai giochetti, potesse decidere qualcosa di utile.

Ho provato a convincermi che quella classe di “figli, nipoti, mariti, mogli, amanti di…”, che non ha mai vissuto dentro le strade impolverate dell’umanità quotidiana, potesse comprenderne, almeno una volta, le esigenze, i problemi, le realtà, le priorità. Ho pensato che sapessero che il precariato è una condizione snervante o che qualcuno li avesse informati che una parte dei precari di questo Paese poteva davvero sperare nell’assunzione se questo decreto avesse introdotto gli attesi sgravi, gli incentivi per le aziende interessate ad assumere o a trasformare i rapporti precari, a progetto, in rapporti a tempo indeterminato.

Ancora una volta, invece, hanno dimostrato di non sapere nulla, di non essere altro che attori di uno spettacolo triste, fomentatori di una rabbia sociale che cova ma non esplode, intrappolata dalla rassegnazione e dall’inerzia di un popolo che ha sempre bisogno di un liberatore, perché da solo non riesce a organizzarsi, reagire, rispondere. Le misure previste dalla bozza del decreto sono ridicole, perché prevedono incentivi solo per i ragazzi dai 18 ai 29 anni, per di più in possesso di tutta una serie di requisiti: essere privi di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi; essere privi di un diploma di scuola media superiore o professionale; vivere soli con una o più persone a carico. A queste misure si aggiungono poi gli incentivi per gli over 50, ma solo se disoccupati da più di 12 mesi e titolari del sussidio previsto.

E gli altri? Quelli dai 30 ai 49 anni? I precari? I laureati? Niente. La fascia che soffre, quella che non può scrivere nemmeno l’iniziale della parola Futuro rimane fuori, non conta, non interessa. Una moltitudine di donne e uomini che magari non potranno più avere contratti a progetto (la legge Fornero vieta il secondo rinnovo) né essere assunti a tempo indeterminato, in assenza di sgravi. Laureati, specializzati, qualificati: non servono, non serviamo. A noi hanno dato il ben servito. Da tempo. Hanno aperto le porte di uscita, non ci vogliono perché pretendiamo di avere delle condizioni di lavoro eque, di vedere riconosciute le nostre competenze, di vedere rispettati i nostri anni di studi e sacrifici.

Ce lo hanno fatto capire tante volte, ci hanno spinto a partire. Ma qualcuno non ha ascoltato, perché abbiamo creduto che non fosse giusto, perché volevamo continuare a vivere in Italia, perché nonostante tutto ci piaceva e ci piace il nostro Paese, perché volevamo sentirci a casa. E allora, a quelli che non avevano ascoltato, che si erano illusi di poter cambiare, hanno rimandato il messaggio, forte e inequivocabile: “Ve ne dovete andare via!”. Siete stati molto chiari. Messaggio recepito. Valuteremo bene se obbedire o farvi pentire della vostra arroganza. Il tempo di capire se in questo Paese, a mobilitarsi, sono rimasti solo i cervelli vuoti dei servi che reclamano il loro orgoglio di essere puttane.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org