C’è anche l’Italia nell’elenco, stilato dall’organizzazione “Supernational Environmental Justice Foundation” (Fondazione SEJF), dei 12 peggiori crimini ambientali commessi contro il nostro Pianeta e rimasti pressoché impuniti. L’organizzazione ha presentato ieri, a Venezia, quella che ha definito la “sporca dozzina” dei reati ambientali nel mondo. Non vi sono stati risarcimenti per i danni provocati e i colpevoli non sono stati assicurati alla giustizia, anche in Italia, dove a oltre 20 anni dall’affondamento della petroliera Haven, nel Mar Ligure, le vittime non hanno ancora ricevuto un risarcimento dignitoso. Il naufragio della petroliera provocò nell’aprile del 1991 la morte di di 5 uomini dell’equipaggio e lo sversamento sui fondali marini di 134 mila tonnellate di petrolio. L’eredità dell’accaduto continua oggi e proseguirà per i prossimi 10 anni, con effetti negativi sull’ecosistema marino.

Il disastro della Haven è al nono posto nella lista di SEJF. In prima posizione troviamo “le isole sommerse dal cambiamento climatico”: le Maldive e le Kiribati. “I 350 mila abitanti delle Maldive vivono minacciati dall’innalzamento del livello del mare. Se i cambiamenti climatici portassero ad un aumento della temperatura del Pianeta pari a soli 4 gradi, ciò provocherebbe ondate di calore estremo, una diminuzione degli stock alimentari, un rialzo del livello del mare che colpirebbe centinaia di milioni di persone, che sarebbero costrette a lasciare le proprie case. La situazione alle Maldive è tanto grave che gli abitanti sono già pronti ad essere ospitati dall’Australia”, affermano i dirigenti di SEJF.

Si passa poi al caso del Canada, con lo sfruttamento delle sabbie bituminose ai piedi delle Montagne Rocciose per l’estrazione di petrolio, attività che è costata la distruzione “di una regione grande quanto la Florida”. La foresta boreale viene distrutta e per ogni barile di petrolio da ottenere ne vengono sprecati cinque d’acqua. I beni comuni e le popolazioni native sono a rischio. I liquami tossici vengono scaricati nei laghi. La produzione di petrolio da sabbie bituminose minaccia le popolazioni che vivono attorno ai giacimenti, inquinando le falde acquifere e la carne di alce, che costituisce un elemento essenziale per l’alimentazione di Metis e Inuit. In Africa, invece, nel Niger, il delta del fiume omonimo è avvelenato: l’estrazione di petrolio dal delta del Niger è devastante per gli ecosistemi e le popolazioni residenti. Viene posta in atto una pratica illegale, che consiste nel bruciare il gas che esce dai pozzi petroliferi insieme al greggio. Il fumo così generato contiene un’elevata quantità di sostanze tossiche per la salute e per l’ambiente. Respirare i fumi nocivi comporta avvelenamento del sangue e cancro.

Le foreste pluviali dell’Indonesia, uno dei più importanti ecosistemi del pianeta, sono invece minacciate dai produttori di carta, legno e olio di palma della multinazionale App, mentre in Giappone centinaia di migliaia di persone sono ancora esposte ai rischi a lungo termine delle radiazioni dovute all’incidente di Fukushima dell’11 marzo 2011. Dopo Fukushima, nella lista, troviamo il più grave danno ambientale marino della storia statunitense: la marea nera della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico. British Petroleum si è accordata con il governo americano per un fondo di risarcimento alle vittime di 20 miliardi di dollari, ma i reali danni del disastro ambientale avvenuto nel 2010 sono tutti da valutare e la certezza della pena ancora da stabilire.

Dieci anni prima, nel 2000, in Romania, l’onda di cianuro partita dalla miniera d’oro Esmeralda, ad Auriol, dopo aver devastato i due affluenti che le hanno permesso di arrivare al Danubio, ha puntato alla foce del fiume blu, cioè alla più grande zona umida d’Europa, uno dei pochi paradisi naturali sopravvissuti nel Vecchio Continente. Anche questo crimine è rimasto pressoché impunito. La compagnia australiana Esmeralda Exploration ha dichiarato fallimento e nessuno ha mai risarcito un solo euro per uno dei disastri più imponenti della storia nei confronti di un sistema fluviale.

Altro disastro è quello dell’area del Lago Agrio, in Ecuador, inquinata dalla  multinazionale Chevron-Texaco, durante le sue operazioni di esplorazione e sfruttamento di petrolio. Già nel 1993, 30 mila tra abitanti e agricoltori hanno denunciato l’accaduto. Un tribunale dell’Ecuador ha riconosciuto la colpevolezza di Texaco, multandola per 18 miliardi di dollari, ma dopo varie fasi del processo, l’azienda petrolifera si è appellata alla Corte Internazionale dell’Aja e il reato rimane ancora impunito. Chernobyl invece costituisce l’incidente nucleare più grave della storia. Il disastro avvenne il 26 aprile 1986, presso la centrale nucleare V.I. Lenin. Le cause furono indicate in gravi mancanze da parte del personale, sia tecnico che dirigente, in problemi relativi alla struttura e alla progettazione dell’impianto stesso e nell’errata gestione economica e amministrativa della centrale. Non esistono ancora oggi dati ufficiali e definitivi sui decessi ricollegabili alla tragedia. Non venne accertata alcuna responsabilità penale.

Infine, ci sono i casi della montagna di piombo di Abra Pampa, in Argentina, e della nube di pesticidi tossici di Bhopal, in India. Il primo riguarda la formazione di una montagna di 30 mila tonnellate di piombo provenienti dalle lavorazioni di un impianto chiuso negli anni Ottanta, con tutti i rischi connessi all’inalazione della polvere del minerale. Il secondo, invece, ha causato la morte di oltre duemila persone uccise da una nube tossica di isocianato di metile formatasi il 3 dicembre del 1984 nello stabilimento della Union Carbide India Limited, a  Bophal. Nel giugno 2010 un tribunale di Bhopal ha emesso una sentenza di colpevolezza per omicidio colposo per grave negligenza nei confronti di otto ex-dirigenti indiani della UCIL. La condanna tuttavia è stata irrisoria rispetto ai danni provocati.

G. L. -ilmegafono.org