Non è una durissima protesta, un fatto nazionale che si snoda e galleggia nel rosso acceso di una richiesta di cambiamento contro il rischio di derive autoritarie all’interno di uno Stato che vorrebbe marciare a vele spiegate verso una sempre maggiore libertà. Quanto sta avvenendo in Turchia non è una semplice questione politica interna al popolo turco. Non è nemmeno, come ha sostenuto il presidente Erdogan, un tentativo di distruggere l’economia del Paese. Il livello è molto più alto e nobile, forse anche più tipicamente umano che politico. È la manifestazione lucida di un’avversione al potere. Un potere che, nelle sue tante diramazioni e versioni (e con le ovvie differenze di contesto e di radici storiche) si somiglia maledettamente, sempre, ovunque. Dalla Turchia alla Tunisia, dall’Italia alla Grecia.

Nel mondo globalizzato in crisi, le ferite aperte da un modello economico nutrito per anni da sfruttamento selvaggio e finanza creativa, senza un equilibrio e sotto i colpi di una politica sempre meno autonoma e più debole, diventano terreno ardente sul quale bruciano le frustrazioni, la stanchezza e la rabbia dei cittadini. Soprattutto dei più giovani, quelli che non riescono a immaginare un futuro che sia declinazione di questo presente. Non solo per le questioni legate all’occupazione, ma più in generale per un tipo di società che è stata ereditata, dentro cui ci si è formati, ma che non piace, perché è squilibrata, corrotta, ostile alle libertà fondamentali e ai diritti. Il peso del potere si avverte e non ci sono più le grandi tensioni ideologiche a dare un valore politico a quel peso, a fabbricare i bilanciamenti necessari. La lotta è cambiata perché il mondo è cambiato, spostandosi su una dimensione differente.

La storia della Turchia, i passi avanti fatti negli anni, l’orizzonte rivolto ad Occidente, a quell’Europa con cui si dialoga in attesa e nella speranza di entrarvi, adesso è cambiata. La protesta ambientalista di Gezi Park è diventata un’occasione per sfogare il proprio bisogno di opporsi ad un autoritarismo che stona con le scelte di modernità, che ancora tra l’altro incontrano le resistenze di una parte del Paese. Erdogan non ha lasciato spazio al dialogo, ha usato la linea dura. La polizia turca ne ha rispecchiato la fermezza: ha sparato, ha ucciso, non ha usato mediazioni con i manifestanti. Il presidente turco è stato definito un dittatore dalle opposizioni. Ha risposto che il governo deve “garantire la sicurezza di vite, proprietà, menti, generazioni e credi”. E ha racchiuso tutto il suo messaggio nella ragione delle ragioni, quella rispetto a cui la retorica di potere assegna il valore massimo che giustifica tutto: “proteggere la nazione”.

Un concetto utilizzato contro i kurdi prima, contro gli oppositori e i cittadini adesso. Il potere che non arretra, perché ha paura di crollare, oggi più che mai. Il potere che ha bisogno di ordine, di fermezza, di alzare la voce per non sentire lo scricchiolio che comincia a far rumore nei palazzi vicini e perfino in quelli più lontani, alcuni dei quali sono già macerie e a volte persino bottino goloso per gli sciacalli. La Turchia, dove c’è chi canta Bella Ciao in lingua turca con il megafono in pugno, avverte il bisogno di liberazione, non da un invasore, da una potenza imperialista verso cui si nutre odio o risentimento, bensì da una forma di potere che è contraddetta dai tempi, dalla velocità delle informazioni, dalla rottura dei confini territoriali, dalla globalizzazione della conoscenza, dagli scambi di massa. Si torna indietro, si ritorna a cantare e lottare, a compiere gesti che hanno già segnato una storia.

Come in Grecia, dove i giornalisti della ERT, emittente di Stato a cui il governo, con decisione unilaterale, ha chiuso 5 canali e 29 radio, hanno deciso di occupare alcuni studi e di trasmettere ancora, clandestinamente, attraverso il web e alcuni canali digitali. Occupano, aspettando che la polizia intervenga, come il presidente Samaras ha promesso. Anche lui non si ferma (nelle ultime ore, però, pare possa essere riaperta solo parzialmente la tv), malgrado le proteste di artisti, intellettuali, musicisti, sindacati e nonostante decine di migliaia di cittadini comuni abbiano deciso di manifestare la loro solidarietà agli occupanti riversandosi davanti alla sede dell’emittente, ad Aghia Paraskevi. L’arroganza del potere genera mosse di regime in una Grecia che è una polveriera pronta a esplodere. L’uso della polizia, anche qui, diventa la minaccia incombente sull’esercizio di un diritto che non è solo di chi occupa ma è di tutti. Soprattutto se stai difendendo il diritto di far sapere, di informare, di far vedere. Un’ossessione tremenda per chi detiene il comando. 

Tornando in Turchia, l’Ansa qualche giorno fa ha dato notizia dell’arresto di almeno 20 avvocati a Istanbul. Difendevano legalmente i manifestanti. Sarebbero stati presi e sbattuti dentro. “Dobbiamo difendere la nostra nazione”, mi tornano in mente le parole di Erdogan. Difendere la nazione da chi difende i diritti dei cittadini di quella nazione. Togliere la libertà a chi difende la libertà. Vengono i brividi a pensare che certe parole e logiche le abbiamo ascoltate e osservate tante volte anche in Italia, in occasione di manifestazioni di protesta o nel caso di movimenti di lotta. Di recente abbiamo visto anche le cariche della polizia sulle mamme e sui ragazzi del No Muos di Niscemi e quelle sul sindaco di Terni e sui lavoratori Thyssen che rivendicavano un diritto sacrosanto.

Abbiamo ascoltato rappresentanti istituzionali affermare, a caldo, di stare “dalla parte della polizia comunque”, anche se la polizia ha manganellato (chi ha dato l’ordine?) degli operai che manifestavano pacificamente. Non è sceso in piazza nessuno a loro sostegno. Ci siamo dimenticati tutto subito. Però adesso ci sentiamo vicini al popolo turco, forse perché speriamo, anche stavolta, che un’azione finalizzata al cambiamento possa attraversare il Mediterraneo e incunearsi, come virus benefico, nelle nostre vene atrofizzate, nella pigrizia di chi, come atto rivoluzionario contro il potere, ha pensato che bastasse affidarsi a un comico che diceva e dice che “sono tutti uguali” e che bisogna distruggere il Parlamento e la democrazia rappresentativa. Il potere di sempre, alla fine, è ancora lì, saldo e pasciuto, a mostrarsi intransigente e a difendersi dagli scricchiolii. Ovviamente, neanche a dirlo, per “il bene della nazione”.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org