Ci si conosce tutti, dentro un paesino. Quante volte ho sentito ripetere questa frase che ti riempie di certezze. Quante volte anche io l’ho pronunciata. In linea di principio sembra vera, di una verità quasi scontata: in una città con non abbia più di 50-60 mila abitanti, che frequentano gli stessi posti da sempre, è facile conoscersi e riconoscersi, sapere chi è il signore seduto davanti al tavolo del bar o la signora indaffarata che entra nel supermarket spingendo il passeggino con dentro la sua piccola creatura. Scene quotidiane di un posto che guarda al quotidiano, alle faccende da sbrigare, al lavoro da fare, ai gesti da ripetere quasi meccanicamente. Eppure quella frase non è poi così tanto vera, se ci mettiamo a riflettere un istante sul suo verbo principale. Conoscere non vuol dire essere al corrente di tutto quello che riguarda l’altro, a tal punto da prevederne gesti, reazioni, stati d’animo.

Nemmeno dentro una città piccola, in realtà, ci si conosce per davvero. Inoltre, ognuno ci vive sperimentando stati d’animo differenti e più o meno privati: gli anziani si accontentano di più, pur lamentandosi di qualcosa che sicuramente non va; i giovani, di solito, si sentono “stretti”, vivendo gli spazi comuni ridotti e sempre maledettamente uguali con la stessa sensazione di chi indossa un maglione dal collo alto in un torrido mezzogiorno estivo. Allora si realizza quella frattura, quella silenziosa divisione tra chi si accontenta e chi non lo fa, tra chi si lamenta e chi invece si dà una mossa, tra quei volenterosi che eroicamente lottano per cercare di cambiare le cose e gli altri che li guardano con un sorriso a metà tra la commiserazione e la derisione. Al Sud, poi, si realizza quel solco doloroso tra chi  resta e chi va via, con la malinconia nel cuore e l’incertezza sulla pelle a far compagnia alla speranza.

Speranza che invece troppe volte muore, tragicamente, annegata nel fiume di una disperazione sconosciuta che coglie di sorpresa chi ne vede scorrere le acque gelide sul dorso di un paesino inscatolato nel sud di un Paese che è addormentato da un potere rancido e dalla recita misera dei suoi protagonisti. Qualche giorno fa, nel centro di Ercolano, alle porte di Napoli, i gelidi rivoli di quel fiume disperante hanno attraversato il paese, fermandosi sotto il municipio, tra i piedi e le caviglie tremolanti di quella gente che “non avrebbe mai immaginato” di vedere il fioraio Antonio Formicola sulla ringhiera del balcone di quella istituzione per cui tante volte aveva lavorato, con dedizione e disponibilità.

Amava la sua città, come ha ricordato anche l’ex sindaco (ora parlamentare del Pd) Luisa Bossa, a tal punto da correre ogni volta che veniva chiamato, per fornire fiori, spesso anche gratis, perché non c’erano soldi per pagarlo. Lo faceva per amore di Ercolano e del suo lavoro. Non servivano le autorizzazioni, quando c’era urgente bisogno di lui. Poi, d’improvviso, un permesso negato, proprio da quel Comune che lui tante volte aveva fedelmente servito. La richiesta di spiegazioni e di un incontro con il sindaco. L’assenza di una risposta. Esasperato da questa e da chissà quante altre cose in questo momento di crisi, Formicola non ce l’ha fatta più. Un balcone, una ringhiera, una corda attaccata ad essa, un accendino che si china sui vestiti imbevuti di benzina, la fiammata che brucia rapidamente, spezzando anche la corda, il tonfo sul selciato, dove chissà quante volte è passato con i suoi fiori.

Un altro dramma che brucia sulla coscienza collettiva, su una crisi che, se dentro i palazzi del governo e delle banche assume la fisionomia di concetti vuoti come lo spread o di teorie studiate appositamente per salvare i grandi sistemi di un capitalismo in cancrena, nell’esistenza quotidiana di chi vive di lavoro e non riceve sconti o proroghe assume il funesto suono di quattro parole: “chiuso per cessata attività”. Quattro semplici parole che sotto la forma celano una tragedia che investe tutti, datori di lavoro e lavoratori. A cui poi si aggiunge la burocrazia, che non lascia scampo, così come le banche e uno Stato che pretende di scaricare decenni di errori criminosi sulla pelle dei soliti, cioè di quelli che le vie di uscita le hanno esaurite da tempo o le hanno trovate ostruite da macigni che scavano dentro le proprie ansie.

Qualcuno dice che ci vorranno anni (chi dice 20 e chi addirittura 60) prima che l’Italia torni alle condizioni precedenti la crisi. Un’eternità. Forse perché le ricette necessarie a riportarci su livelli accettabili sono sempre le stesse e hanno un difetto di fondo: non mettono mai in discussione l’intero modello economico, le sue fondamenta erose, le contraddizioni che stanno esplodendo in tutto il mondo mettendo a nudo la fragilità di una politica compromessa, goffa nei tentativi poco convinti di rinnovamento e rigenerazione. Lontana da quei cartelli di cessata attività, dagli sfratti, dalla solitudine di chi non vede altro che la sua angoscia circondata da indifferenza o dallo spettacolo penoso di un’agenda politica agitata da temi che non sono prioritari, dai litigi sterili e dalle noiose e ridicole schermaglie interne a partiti, pseudo-partiti e movimenti/partiti.

Non si può pensare che la gente resista ancora a lungo, senza che scatti una risposta disperata, non più singola ma collettiva. Non più autodistruttiva, ma distruttiva, dirompente, scomposta. Non esistono contenitori adeguati a trattenere o incanalare virtuosamente la rabbia e il dolore negli occhi di chi ha visto amici, conoscenti, familiari, genitori, figli finire tra le fiamme e il silenzio, dentro una resa tanto ingiusta quanto inutile.

Inutile come il senso di colpa postumo di una comunità che è identica in ogni regione e città, dentro cui la solidarietà sociale sparisce, liquefatta nell’egoismo del proprio privato, nell’ossessione della paura e della sicurezza che anni di propaganda irresponsabile hanno fomentato, aumentando la tendenza all’isolamento, alla chiusura verso tutti. L’umanità che si perde e si disperde, senza che giunga ad alcuno un segnale, un bengala dalla luce anche flebile che richieda un SOS in questo mare crudele mosso dal vento della crisi, che spazza via tutto, non solo i fiori ma anche chi ha saputo crescerli e innaffiarli con il sudore e l’umiltà di un lavoro onesto.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org