Amina Tyler è tunisina, ha 19 anni e un grande coraggio. A marzo scorso ha pubblicato su facebook una foto in topless con la scritta sul petto:  “Il mio corpo appartiene a me e non è la fonte dell’onore di nessuno”. Nei giorni successivi la ragazza è stata picchiata e minacciata di morte. Il predicatore wahabita Almi Adel, capo della commissione per la promozione della virtù e la repressione del vizio, ha chiesto la condanna della giovane alla pena capitale per lapidazione, “per la gravità dell’atto commesso”. Amina però non si è arresa e ha pubblicato una nuova foto sul sito dell’organizzazione Femen, ancora una volta a torso nudo e con la scritta: “Mai più lezioni di moralità”. 

Poi il primo maggio è stata arrestata a Tunisi, durante la manifestazione della Festa dei Lavoratori, ed ora si trova in carcere. Le accuse iniziali nei suoi confronti sono cadute: il capo d’imputazione era detenzione di arma esplosiva, perché Amina al momento dell’arresto aveva con sé uno spray urticante anti-aggressione.  Fuori dall’aula del tribunale di Kairouan, dove Amina è stata chiamata a rispondere delle accuse, si sono radunate circa 200 persone, per lo più religiosi salatiti, che hanno chiesto la sua condanna per reati come istigazione alla violenza, disordine pubblico e offesa alla morale. Tutte queste accuse fortunatamente sono state respinte.

“Il Tribunale si è comportato come un buon esecutore della legge, un buon inizio che ci dà speranza”, ha detto l’avvocato della Tyler,  il trentenne Hajer Hazzar. Amina, però, rimarrà in carcere fino al 5 giugno e, una volta uscita, dovrà fare i conti con l’ira dei salatiti e con il maschilismo ancora troppo radicato nella società tunisina. “Il suo gesto potrebbe causare un’epidemia – ha detto l’imam Almi Adel riferendosi ad Amina –. Potrebbe essere contagioso e far venire la stessa idea ad altre donne”. Ed è proprio questo che i difensori di un integralismo religioso misogino temono di più: la diffusione della libertà d’espressione e di disporre liberamente del proprio corpo.

Il paese dove è nata la “primavera araba”, con il suicidio dell’ambulante Mohammed Bouazizi e le prime rivolte giovanili di fine 2010, vive infatti una profonda contraddizione: molti di quelli che hanno contribuito alla caduta del regime di Zine el Abidine ben Ali, rivendicando i diritti civili e la libertà dalla “dittatura”, continuano ad essere strettamente legati a correnti islamiche integraliste, come quella salafita che vorrebbe imporre la legge coranica nel Paese. Il nuovo parlamento tunisino è composto per il 50% da donne e le figure femminili stanno acquisendo un peso crescente nella vita politica dello Stato, tuttavia per una vera uguaglianza tra i generi la strada da fare è ancora lunga.

“Le donne e le ragazze tunisine erano in prima fila nei cortei che chiedevano la caduta del regime del dittatore Ben Ali e la fine della sua macchina di repressione”, scrive la femminista tunisina Rafiqa Mahjoub in un editoriale pubblicato recentemente dal quotidiano al Shuruq. “Le abbiamo viste sfilare con coraggio e senza paura per la liberazione dei detenuti politici ed ora vengono ripagate con proposte come la reintroduzione della poligamia (avanzata da alcuni esponenti del partito islamico moderato Ennahda, al potere)”.  In Tunisia, come in altri Paesi del Nord Africa, la lotta per i diritti delle donne e la parità dei sessi non può essere separata da quella per la democrazia e i diritti economici. Anzi è proprio attraverso la liberazione e l’emancipazione della donna che si affermano i veri valori democratici.

G.L. -ilmegafono.org