C’è un linguaggio che è più pericoloso di mille pistole puntate contro. È il linguaggio della disinformazione che, soprattutto quando si parla di mafia, rischia di avere un effetto violento sulla memoria e dunque sulla consapevolezza presente e futura di una nazione, della sua classe dirigente e della sua cittadinanza. In tanti, da tempo, temevano quello che sarebbe avvenuto dopo la morte di Giulio Andreotti. In effetti il momento dell’estremo congedo si pone su un perfetto continuum rispetto a quello che è accaduto quando era in vita. L’elogio funebre diventa un concentrato di retorica, accondiscendenza acritica, restauro dei pezzi di un mosaico scheggiato e macchiato, persino idolatria lacrimante. Visto che siamo in Italia, tutto ciò si trasforma in un orgasmo di selvaggia disinformazione.

A partire dalla “comprensione” dei rapporti poco chiari che Andreotti ha intrattenuto con le forze oscure di questo Paese, che ci vengono spiegati con disarmante superficialità (supponendo la buona fede…) come la scelta obbligata, l’unica possibile, di chi deve governare una nazione come la nostra, bisognosa di mediazione in quanto ricca di compromessi, minacce, società segrete, mafie che si muovevano in un contesto internazionale dominato dalla divisione in blocchi, dalla Guerra Fredda, da quell’equilibrio politico che dominava il mondo sulla base di una (probabilmente) inattuabile minaccia. Una motivazione assurda, il trionfo indecente della giustificazione, dei cattivi esempi, del fine (negativo) che giustifica i mezzi (sporchi).

Si è arrivati a scomodare perfino Machiavelli (in una versione riadattata) pur di sbattere in faccia al Paese un’immagine del Divo che fosse più pulita di come la sua storia, i fatti e le carte processuali l’hanno dipinta. A proposito di carte processuali, la bugia delle bugie continua a essere diffusa, anzi utilizza la pietà della morte come canale di amplificazione. A forza di ripetere che Andreotti è stato assolto dalle accuse di contiguità con la mafia, il popolo ha finito per crederci. E assolverlo davvero. Una sorta di “profezia che si autoavvera”. Tutti a ripetere, come un mantra, che non è stato condannato, che il processo si è concluso con l’assoluzione. La sbornia di informazioni false ha annebbiato la vista e rallentato i riflessi di una cittadinanza che mostra di avere sempre meno difese e sempre meno memoria.

Lacune che sono funzionali al potere, ai “figli” politici di Andreotti e del sistema clientelare e corrotto, grigio e anti-etico che egli ha allevato, nutrito, plasmato e blindato. Eppure ci sono le parole chiare della Corte di Appello di Palermo, che, nelle motivazioni della sentenza del 2 maggio 2003, scrive: “Con la sua condotta (…) (non meramente fittizia) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”.

Una sentenza chiara nelle spiegazioni dettagliate così come nel dispositivo, che recita: “La Corte, visti gli artt. 416, 416bis, 157 e ss., c.p.; 531 e 605 c.p.p.; in parziale riforma della sentenza resa il 23 ottobre 1999 dal Tribunale di Palermo nei confronti di Andreotti Giulio ed appellata dal Procuratore della Repubblica e dal Procuratore Generale, dichiara non doversi procedere nei confronti dello stesso Andreotti in ordine al reato di associazione per delinquere a lui ascritto al capo A) della rubrica, commesso fino alla primavera deI 1980, per essere Io stesso reato estinto per prescrizione; conferma, nel resto, la appellata sentenza”. (Sentenza della Corte d’Appello di Palermo – 2 maggio 2003, confermata dalla Cassazione il 15 ottobre 2004).

Il grassetto lo abbiamo aggiunto volutamente per sottolineare che Giulio Andreotti è stato riconosciuto, fino all’ultimo grado di giudizio previsto dal nostro ordinamento giuridico, colpevole di associazione per delinquere di stampo mafioso fino al 1980. Sì è salvato solo grazie alla prescrizione. In un Paese normale ciò basterebbe per sviluppare nei suoi confronti un atteggiamento di esecrazione e di rigetto assoluto. Di condanna quantomeno morale. In Italia no. In Italia dal giorno dopo si è cominciato a ripulire tutto, a sciacquare la storia e scolorire la verità. Operazione  riuscita perfettamente.

Come ha commentato sul suo blog il mio amico Giulio Cavalli, che alla questione Andreotti ha dedicato uno spettacolo teatrale e un libro (“L’innocenza di Giulio”, Chiarelettere, 2012), “è morto Giulio Andreotti ma non ha lasciato orfani, perché tutto intorno i suoi allievi sono diventati grandi e camminano con le loro gambe e hanno imparato bene a non mostrare chi tengono per mano. Gli elogi funebri che leggerete oggi sono l’effetto dell’etica erosa negli anni dalla mafia e dal brigantaggio politico. Chissà almeno che lo schiaffeggi Dio. Perché qui ci siamo prescritti tutti per interessi o vigliaccheria”.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org