Se ne stava iniziando a parlare, contro le più ottimistiche previsioni, malgrado il muro di gomma che negli anni era stato magistralmente innalzato intorno all’intera vicenda: negli scorsi mesi Taranto e l’Ilva, il suo grande nemico velenoso, erano balzati agli onori della cronaca. Qualcosa si stava muovendo, qualcosa stava cambiando, il costante avvelenamento, il “disastro ambientale”, definito così dai giudici che si stanno occupando del caso (la cosiddetta inchiesta “Ambiente svenduto”), che negli anni si è criminalmente consumato a Taranto era divenuto, finalmente, una tematica nazionale, affrontata costantemente dai media che per anni l’avevano taciuta, quasi “nascosta”. Purtroppo però viviamo in un periodo molto particolare. Sono tantissimi i problemi che attualmente sconvolgono quello che un tempo era considerato “il bel paese”: crisi economica, crisi sociale, crisi politica sia estera che interna.

L’Italia sta cercando di uscire da una situazione senza precedenti e tutte queste problematiche hanno nuovamente oscurato il dramma di Taranto, la bellissima città pugliese da troppo tempo divisa tra lavoro e salute. Malgrado si siano di nuovo spenti i riflettori  sull’Ilva la situazione non è affatto rimasta immutata, a Taranto si continua a respirare veleno e si continua a lottare per garantire a sé stessi ed ai propri figli un futuro migliore. Lo scorso 9 aprile, la Corte Costituzionale ha respinto i due ricorsi contro la “legge salva Ilva” (la legge 231 del dicembre 2012) che era stata accusata di incostituzionalità dai magistrati tarantini perché in conflitto con i principi costituzionali della salute e dell’ambiente. Nonostante la Consulta si sia così espressa, la procura ha negato ancora una volta il dissequestro del milione e 700mila tonnellate di acciaio dell’impianto oggetto di indagini a cui la Finanza aveva messo i sigilli lo scorso 26 novembre, rimandando ogni ulteriore decisione al momento in cui saranno rese note le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale.

Nel frattempo, l’inchiesta “ambiente svenduto” procede e ad oggi figura tra gli indagati anche il sindaco di Taranto, Ippazio Stefanò, al quale vengono contestate le ipotesi di reato di abuso e omissioni in atti di ufficio. I reati contestatigli sarebbero supportarti da un esposto presentato in Procura da Aldo Condemi, un consigliere comunale del Pdl, esposto con il quale si accuserebbe il primo cittadino tarantino di non aver attivato le necessarie misure per i controlli ambientali sull’Ilva. Stefanò, che in un primo momento sembrava essere fortemente intenzionato a presentare le proprie dimissioni, ha dichiarato di essere giunto alla conclusione che dimettersi in un simile momento sarebbe stato un gesto irresponsabile e ha ribadito di essere a disposizione delle autorità giudiziarie per ogni chiarimento necessario in merito alla propria posizione. Dichiarazioni che non sono state accolte molto bene dal mondo ambientalista tarantino e da tutti coloro i quali lottano da anni tra piccole vittorie e grandi delusioni.

Delusioni brucianti come il mancato raggiungimento del quorum nelle consultazioni referendarie dello scorso 14 aprile. Un referendum comunale meramente consultivo (che quindi, anche in caso di raggiungimento del quorum, non sarebbe stato risolutivo), ma in ogni caso un’occasione che i tarantini si sono lasciati sfuggire: l’occasione di provare a riprendere in mano il proprio futuro. I quesiti referendari, proposti nel 2007 da Taranto Futura, erano due: il primo proponeva la chiusura dell’intero stabilimento, il secondo la chiusura della sola area a caldo (l’area maggiormente inquinante) ed il conseguente smantellamento del parco minerale. Malgrado alle urne si sia recato solo un cittadino su 5 (il quorum è stato del 19,5%), un dato positivo è comunque emerso dalle consultazioni, vale a dire una crescente consapevolezza della spinosa realtà: l’Ilva a Taranto dà il lavoro ma toglie la salute.

Dei 34mila tarantini che si sono recati alle urne, infatti, 30 mila si sono espressi in favore della chiusura delle aree maggiormente inquinanti dello stabilimento, non cedendo più a quel ricatto occupazionale che negli anni ’20 rese Taranto schiava del suo più acerrimo nemico, bensì mettendo la salute propria e dei propri cari davanti a tutto. Ma la lotta per il cambiamento a Taranto non è fatta solo di delusioni, la forza della disperazione, la speranza in un domani migliore portano anche a grandi successi. Lo scorso 1° maggio, mentre buona parte degli italiani era presa dalla classica scampagnata, dimentica del vero senso della giornata, a Taranto si è organizzato un grande concerto per non dimenticare i due grandi problemi della città: salute e lavoro.

Il concerto, intitolato “Sì ai diritti, no ai ricatti. Lavoro: ma quale lavoro?”, che è stato organizzato dal comitato “Cittadini e lavoratori liberi e pensanti” ed ha visto la partecipazione gratuita di moltissimi artisti tra i quali Fiorella Mannoia, Roy Paci, Sud Sound System, Francesco Baccini e Luca Barbarossa, si è tenuto nel Parco Archeologico delle mura greche. Anche la scelta del luogo che ha ospitato l’evento non è stata affatto casuale; il parco, situato alla periferia di Taranto, è generalmente simbolo del degrado in cui versa la città, una vera discarica a cielo aperto che, per l’occasione, è stata ripulita dai volontari del comitato “Ammazza che piazza”.

Nel corso dell’intera giornata, sul palco si sono alternati musica ed interventi delle associazioni ambientaliste della città, tutte impegnate per salvare Taranto. Una manifestazione riuscitissima che, tra musica e lotta, ha attirato quasi 50mila persone. Purtroppo però neanche la buona musica è riuscita a scalfire l’assordante silenzio dei media nazionali, forse troppo distratti dal concerto di Roma o dai primi banalissimi servizi sul bel tempo.

Anna Serrapelle- ilmegafono.org