Se la stanchezza arriva quasi a prevalere sulla rabbia, a qualsiasi età, non può che essere un cattivo segno. Ti ripeteranno che non devi mollare, che non puoi, che sarebbe sbagliato arrendersi. Lo so. L’ho ripetuto, consigliato, sussurrato, urlato attraverso un megafono. L’ho scritto. Cento, mille volte. Adesso mi riesce un po’ più difficile, imprigionato in un blocco arcigno che resiste perfino al mio bisogno di scrivere. Un blocco che è pieno di tutto, di questi venti anni trascorsi a combattere dalla stessa parte di quelli che un giorno si sarebbero rivelati come traditori, svelando pian piano il loro volto ambiguo e sporco. Anni passati a incazzarsi, a spendersi, a reclamare e protestare contro la loro inerzia o, peggio ancora, la loro malafede. Venti anni conclusi con l’ultimo atto, il più indecente, quello che mai (nemmeno chi come me ne ha preso da tempo le distanze) ci saremmo aspettati. La sinistra è politicamente, o meglio partiticamente morta, suicida sotto l’albero della convenienza, dell’abbraccio perverso con il nemico per “il bene del Paese”, quel Paese che prima si è contributo a distruggere, con democratica alternanza. La regia di questo delitto è stata affidata alla autorevole firma del monarca napoletano, l’uomo che a sinistra ci ha vissuto sempre da estraneo, al quale non ha mai pesato l’etichetta di esponente della “destra del Pci”.

La vecchia politica è sopravvissuta nell’unico modo possibile: mettendosi insieme pur di non cedere alla richiesta di cambiamento che, sul piano elettorale, si è trasformata in una emorragia tremenda di voti e nella sorprendente affermazione di un movimento che, al di là di limiti, dilettantismi e contraddizioni penose, ha raccolto quella richiesta, quell’esigenza che è condivisa (almeno a parole) dalla maggioranza degli italiani. Non intendo ripetere i nomi dei responsabili di tutto questo, non ne ho più bisogno né voglia. Non chiedo nemmeno il perché. Sarebbe superfluo e inutile di fronte alla scelta di chi da un lato propone come senatore e poi come seconda carica dello Stato un ex magistrato e procuratore antimafia e poi va a costruire un governo con il Pdl di Berlusconi e Dell’Utri. Superfluo commentare i personaggi che oggi vestono l’abito del sottosegretario o del vice-ministro. Bastano tre cognomi: Micciché, Biancofiore, Ferri.

Personalmente provo fastidio anche per chi, a sinistra, oggi si tira fuori con una forma di indignazione postuma, fingendo di non aver mai sentito le voci di tutti coloro i quali consigliavano di non ficcarsi dentro alla palude di un’alleanza funesta. Perché non importa alzare la voce adesso, né giustificarsi chiamando “calcolo elettorale” quello che è un madornale errore, tra l’altro poco originale nella storia della propria area. Ma si sa, il fascino della potenziale poltrona di potere a volte annebbia la lucidità e strozza la lungimiranza. Poi capita che ci si svegli d’improvviso e si pianga, quando il palazzo però è già crollato. E gli altri? Quelli che loro malgrado si sono trovati dentro una vettura impazzita, il cui conducente e pochi altri sceglievano la direzione peggiore, dissestata, priva di protezioni e ai bordi di uno strapiombo minaccioso? Hanno provato a rassicurare gli indignati con le proteste, le tessere strappate, le occupazioni, le prese di posizione. E poi? Silenzio. O peggio, fiducia al nuovo pastrocchio, in nome di un ridicolo senso di responsabilità. Per non parlare di chi, dopo aver giocato a fare il duro, racchiudendo tutte le proprie idee di rinnovamento in un elenco di insulti, adesso perde il proprio tempo organizzando ridicoli e spaventosi processi via web.

Intanto, mentre i giochetti politici interni entusiasmano strateghi di ghiaccio rinchiusi in isolati bunker di cristallo, noi ci troviamo privi di risposte. Qualcuno, dal Parlamento, ha rimesso il tappo al vaso da cui erano usciti fuori rabbia, voglia di cambiare, desiderio di uguaglianza, diritti, civiltà, futuro. Un tappo rigido, metallico, macchiato da sorrisi e strette di mano impensabili, dall’incomprensibile segno di vittoria sventolato dalla mano di un uomo che ha fallito tutto (o almeno questo è ciò che pensiamo noi, perché magari, invece, dal suo/loro punto di vista ha azzeccato tutto). La gente, poi, d’improvviso sembra tornata indietro, quasi placata dalla presenza di un governo, indipendentemente da quel che abbia intenzione di fare. Come se non li conoscessimo, come se non sapessimo di cosa sono capaci. E allora come trovare la forza di continuare a lottare, rodendosi il fegato, perdendo la voce e il sonno per questa Italia? Perché ascoltare chi ti dice “non mollare”? A volte non so nemmeno se abbia davvero senso scrivere ancora, commentare, rendere pubblico il proprio punto di vista.

Sembra una perdita di tempo inutile. Ci sarebbe solo da portare avanti il proprio carretto, da lavoratore il cui permesso di futuro è rinnovabile ogni sei mesi, che deve già sentirsi fortunato, perché almeno può campare bene e continuare, nel tempo libero, a fare il giornalista, visto che le tasse dell’ordine a cui appartieni e del relativo ente previdenziale devi pagarle comunque. Dicono che stiamo diventando individualisti, vorrei che mi dicessero come può non esserlo un essere umano che, prima di tutto, deve pensare a sopravvivere al suo stesso progetto di vita. Non ci si sconvolga se questo non è un Paese solidale, ma solo un Paese senza popolo, incapace di fare fronte comune contro chi da decenni lo tiene in ostaggio. Siamo il popolo delle convenienze, dei clientelismi, delle invidie mortifere, dell’isolamento edificato attorno a chi si batte per il bene di tutti, del fuoco amico. Anche le forme di ribellione che abbiamo creato, nella nostra breve vita repubblicana, sono state corrotte.

Persino la lotta armata, a cui tanti incoscienti e ignoranti, oltre che imbecilli, inneggiano, si è mostrata essere un vile strumento funzionale allo stesso potere che fingeva di combattere. Mercenari e criminali della peggiore specie, nemici del popolo e del cambiamento, lontani mille miglia dalle figure rivoluzionarie a cui dicevano di ispirarsi. E se qualcuno oggi pensa (come ho letto e sentito) che la follia assurda di un disperato sarebbe stata positiva se avesse colpito un ministro o un qualsiasi politico invece di un carabiniere, allora gli auguro di trovarsi un giorno in mezzo a quei proiettili, per capire l’orrore dei propri pensieri e delle proprie parole. Oggi, l’unica cosa che consiglierei, d’istinto, soprattutto ai più giovani, è di trovare in fretta il modo di andarsene via dall’Italia. Di lasciarsi alle spalle la precarietà, la delusione, la noia di star seduti dentro un teatro in cui lo spettacolo peggiore va in replica da almeno venti anni, di trovarsi un luogo dove il futuro sia declinabile.

Andare via, come atto di liberazione, da fare a cuor leggero. Senza perder tempo in domande, angosciose valutazioni, tentativi di comprensione. Senza chiedere nemmeno il perché qui le cose non cambiano mai. Perché questa è l’Italia, il luogo dei segreti e delle non risposte. Poi, ragionandoci, sento l’obbligo di non uccidere le speranze, di lasciare aperto uno spiraglio. Perché c’è ancora qualche segno di flebile speranza. Ha il volto di due donne, due splendide figure venute fuori da questo caos: Laura Boldrini e Cécile Kyenge. Intelligenza, sobrietà, capacità e forza, soprattutto storie di vita vera, vissuta tra gli ultimi. Due donne di sinistra, con idee e progetti precisi, che hanno arricchito di valore e umanità un contesto tetro e angosciante. Due donne che resistono, in prima linea, nel Paese dei femminicidi e delle quote rosa, due combattenti per i diritti dei migranti che parlano di solidarietà e giustizia nel Paese del reato di clandestinità e dei respingimenti.

Non so quanto durerà questa speranza e quanto davvero avrà la possibilità di muoversi tra gli squali di un sistema corrotto e fragile. So che è l’unica risposta che al momento so dare ad alcune domande, per salvarmi dalla rassegnazione e non perdermi. In fondo ho ancora voglia di sperare. Non chiedetemi il perché.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org