In Italia, è risaputo, si commemorano (non sempre e non tutti) gli eroi, persone illustri che hanno combattuto contro i tanti mali che hanno afflitto o affliggono questo Paese. Persone che mai avrebbero voluto essere considerate eroiche, perché per esse combattere era un dovere, una conseguenza nobile del loro inossidabile senso dello Stato o del loro sincero amore per la libertà e la giustizia. Donne e uomini che avrebbero di gran lunga preferito ricevere sostegno e vicinanza mentre erano in vita, una vita finita per colpa dell’isolamento, della lotta solitaria o degli intrighi di quello stesso Stato, che è eccezionale nel tramare in segreto contro i suoi figli e coprire poi i misteri per decenni.

Su questa contraddizione si gioca la differenza tra chi della memoria ha una concezione attiva, intesa come elemento di costruzione di un impegno esemplare che prosegua nella direzione tracciata da chi si è sacrificato, e chi invece ha una concezione passiva e spettacolare, una sorta di paravento mediatico dietro cui celare le proprie mancanze, le debolezze e un bel mucchio di ipocrisie. Nei giorni scorsi si è celebrato il ricordo di Pio La Torre, ucciso il 30 aprile del 1982 insieme al suo autista Rosario Di Salvo, in un agguato mafioso nel cuore di Palermo. Tante le parole di circostanza, i messaggi istituzionali, l’invito a non dimenticare il suo esempio. Chi era Pio La Torre? Era un comunista che aveva attraversato tutta la storia dell’Italia repubblicana, combattendo in prima linea sin dall’adolescenza.

Palermitano, figlio di contadini, già all’età di 18 anni inizia la sua battaglia sociale e politica nelle fila del Pci. Era il periodo delle lotte bracciantili e dell’occupazione delle terre, come forma di protesta per la non applicazione dei decreti Gullo, che stabilivano più diritti e più terre da coltivare per i braccianti, soprattutto al Sud. La mafia, legata ancora al latifondo e in perfetta sintonia con una parte della Dc dell’epoca, non intendeva rinunciare al proprio controllo sulle campagne e terrorizzava e vessava i contadini, minacciandoli e minacciando anche quei sindacalisti che spingevano per le occupazioni e per la ribellione al sistema politico-mafioso del tempo. Da un lato la mafia e dall’altro lo Stato, con la sua violenza repressiva e gli eccidi compiuti dalle forze dell’ordine, che obbedivano persino agli ordini di sparare sulla folla.

La Torre, divenuto nel 1947 funzionario della Federterra e successivamente responsabile giovanile della Cgil, prese parte attiva al movimento di protesta a fianco dei braccianti, organizzando manifestazioni e occupazioni delle terre in mano a mafiosi e latifondisti, conoscendo momenti durissimi e perfino il dolore di un arresto ingiusto e pretestuoso al termine di una giornata di scontri tra contadini e forze di polizia. Nel 1972 diviene deputato del Pci per la prima volta. In quegli anni sarà membro della Commissione parlamentare antimafia, di cui sarà relatore insieme al giudice Terranova. Nel corso della sua attività di parlamentare partorisce la proposta di legge sulla costituzione del reato di associazione mafiosa e soprattutto sulla confisca dei beni della mafia, che diventerà legge solo dopo la sua uccisione e che oggi rappresenta uno degli strumenti più importanti nella lotta alla criminalità organizzata.

La sua uccisione viene considerata conseguenza proprio della sua attività parlamentare e legislativa, oltre che della sua aggressiva e costante azione di denuncia nei confronti del sindaco mafioso Vito Ciancimino. Una versione che però non convince del tutto, perché in tanti avevano interesse a vedere morto il segretario regionale del Pci. La mafia, certo, ma anche gli Usa e, probabilmente, i servizi deviati che mettono sempre la loro mano sporca sulle uccisioni eccellenti. La Torre, infatti, non aveva solo combattuto la mafia, ma aveva anche denunciato la convergenza di interessi oscuri, aveva parlato della morte di Giorgio Ambrosoli e denunciato la presenza di Sindona a Palermo nei giorni del suo sequestro simulato.

Soprattutto, Pio La Torre ha condotto una memorabile battaglia civile contro l’installazione di missili nucleari nella base Nato di Comiso (Rg), creando un ampio movimento d’opinione e organizzando, nel 1981, quella che rimane la più grande manifestazione pacifista in Sicilia. Un attivismo che non si limitava alla protesta, ma che si spingeva più a fondo, andando a indagare sulla strategia di militarizzazione del territorio che, in Sicilia, è stata sempre costituita da un intreccio tra interessi internazionali e interessi mafiosi. L’intelligence americana aveva messo gli occhi su Pio La Torre e sulla sua azione antimilitarista, tenendolo sotto osservazione per lungo tempo. Ecco perché oggi si chiede che venga fatta luce sui reali mandanti del suo assassinio.

Non basta la celebrazione, il ricordo, non servono le frasi, i messaggi, quel che serve è un po’ di verità e, soprattutto, la coerenza. Perché ricordare La Torre ogni 30 aprile, parlare di legalità, di valori non ha senso se poi, durante il resto dell’anno, non si sta accanto a chi continua a portare avanti le sue idee, come i magistrati delle procure antimafia, come il giudice Nino Di Matteo, a cui non è giunta alcuna solidarietà dalle istituzioni, a partire dal Quirinale, o come i cittadini che lottano contro l’istallazione del MUOS a Niscemi e il progetto di militarizzazione dell’isola, scelta come punto centrale della strategia militare globale degli Usa, che ripropone i vizi e le ambiguità di sempre. La lezione dell’isolamento di chi combatte contro mafia e poteri forti, questo Paese non l’ha ancora imparata, nonostante la memoria, nonostante gli esempi. Non serve glorificare i morti se poi non si cammina accanto ai vivi.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org