Quattro mani si intrecciano per raccontarvi la Corea del Sud, ripescando ricordi, aneddoti ed esperienze che altrettanti occhi hanno vissuto in due periodi da quattro mesi in scambio presso la Korea University di Seoul.  

La Corea, per un cuneese e un toscano è un posto strano. Tornati in Italia le cose da raccontare e da dire sono così tante che solitamente ci si limita ad un “è andato tutto bene” o “è molto diverso da qua”, servono dei mesi per ripercorrere con calma il percorso. Prima di partire per Seoul il bagaglio di informazioni è limitato: dal 1950 al 1953 c’è stata una guerra che è finita con la divisione della penisola Coreana in due parti lungo il 17° parallelo, nel 2002 hanno ospitato metà dei mondiali di calcio e non solo usano una lingua diversa ma usano anche un altro alfabeto. Eppure basta arrivare in aeroporto per realizzare che, pur partendo da una città come Milano, nulla prepara a ciò che le megalopoli asiatiche sono. Seoul conta più di 10 milioni di abitanti, 17 linee metropolitane e 25 distretti. L’algebra diventa inutile di fronte alla mappa. Lo shock, una volta arrivati, è enorme. Le strade, anche quelle minori, sono piene di neon che sponsorizzano bar, ristoranti, sale da gioco (i videogames sono una passione diffusissima). La prima cosa che colpisce in Corea è iniziare ad alzare lo sguardo. I ristoranti o i bar non sono necessariamente al piano terra, anzi. Molti sono al 5° piano di un palazzo o anche più in alto e si rincorrono ai bordi delle strade senza soluzione di continuità.

Le metropolitane sono piene e solitamente per scendere si spinge; non come in Italia accennando un “permesso”, un “mi scusi”, no, si spinge e basta. L’organizzazione è ovviamente maniacale. Le metropolitane sono tutte informatizzate, sai perfettamente non solo tra quanto arriva il treno ma hai anche una grafica che ti fa capire a che punto del tragitto è. Tutte le stazioni sono mediamente distanti 2 minuti l’una dall’altra così da poter calcolare il tempo del proprio percorso il più rapidamente possibile. La città, cresciuta enormemente negli ultimi decenni, è organizzata in zone commerciali. Per le attrezzature sportive c’è Dongdaemun Stadium, con grattacieli pieni di negozi Puma, Adidas, Nike e altri che ti offrono qualsiasi indumento per qualsiasi sport. Per una macchina fotografica è meglio Jamsil, dove troverai centri commerciali dedicati esclusivamente alla vendita di pc, foto e videocamere, lettori mp3 e qualsiasi altro gingillo tecnologico. Per le discoteche vale un discorso simile. Cercare un indirizzo può diventare un dramma. I numeri civici dei palazzi sono distribuiti a casaccio (o così è parso a entrambi) seguono un ordine non ben chiarito, di costruzione forse, che fa sì che dopo la casa numero 7 ci possa essere quella numero 234 o 59 e così via. 

Seoul è la capitale della Corea e anche la sua città più importante ed estesa. Una volta lasciatasela alle spalle il resto della Corea è in gran parte composta da piccole cittadine rurali arroccate sulle colline dell’entroterra. A sud si trova Jeju, una piccola isola vulcanica patrimonio dell’UNESCO, con l’atmosfera tipica dei posti di villeggiatura, persone sorridenti, ostelli e spiagge. Per quanto riguarda le relazioni interpersonali c’è un mondo affascinante da scoprire. Il confucianesimo (come spiegatoci da un docente di madre coreana e padre tedesco) plasma i rapporti creando precise gerarchie secondo l’età o la posizione ricoperta. Così è facile che venga chiesta l’età prima del nome, perchè è importante sapersi “regolare”. Non è infatti buona educazione scherzare con chi è più grande anche solo di qualche mese. Se il più “alto” in grado è un professore gli studenti si inchinano per salutarlo mentre per gli “occidentali” bastava una stretta di mano. Andare in giro significa uscire con gli amici e ciò implica uscire a cena incontrandosi sempre al di fuori di casa propria (l’ora di cena è fissata intorno alle 18). Le case in Corea, come anche in Giappone, sono molto piccole e si è quindi obbligati ad incontrarsi in bar o ristoranti.

Proprio per questo spirito di collettività che anima quel popolo, i ristoranti poche volte prevedono delle portate personali e provare ad uscire o a bere in solitudine è inconcepibile e impossibile (tutte le comitive presenti faranno a gara ad invitarti al tavolo). Solitamente si ordina un piatto che viene portato in mezzo alla tavola e da cui tutti si servono usando le bacchette. È parso di notare una certa attenzione all’alimentazione, per esempio l’usanza di sedersi per terra (in qualche locale ci sono solo tavoli bassi) ci è stata spiegata come un modo per sentirsi prima la sazietà. Un esempio dell’atmosfera che si respira a tavola sono i barbecue, una delle specialità della Corea, se ne trovano ovunque. Il tavolo su cui si mangia ha una piastra nel mezzo e le bistecche vengono disposte e cotte sulla piastra dal cliente stesso che ne decide la cottura. A tavola l’alcool merita una menzione speciale perché è il modo preferito dai coreani per rompere il ghiaccio e per avvicinarsi l’uno all’altro. Per esempio, se in ufficio si chiude un affare importante è normale che la sera si vada a bere tutti insieme al bar (e il capo pagherà il conto) e anche dopo un esame conclusosi alle 22, il professore ci ha portato in uno dei tanti locali dove servono pollo fritto e birra.

A questo punto sembrerebbe tutto normale e  simile a ciò che accade anche in Italia o nel resto del mondo. Il problema (almeno per un europeo) è che questa loro familiarità con l’alcool si traduce in mancanza di limiti. Sicuramente non si degusta nulla, non si assapora, semplicemente si butta giù una birra onesta e leggera spesso mischiata a un bicchierino di superalcolico (da solo quasi imbevibile per i nostri palati): il Soju. È dunque cosa normale, anche durante la settimana, camminare per le vie di Seoul e vedere dei business man, vestiti di tutto punto in giacca e cravatta, sdraiati per terra o sostenuti dai colleghi. Come ci è stato detto e come abbiamo provato, l’alcool è una valvola di sfogo dopo gli esami o dopo giornate di lavoro intense e molto stressanti (non si esce da lavoro prima del diretto superiore). Il bere insieme è una sorta di rituale che prevede anche un fitto elenco di regole di buona educazione su chi deve servire da bere dalle classiche caraffe di birra. Alcune note di costume danno bene l’idea della distanza che può separare due culture. 

Per esempio, al mare tendono a concentrarsi in una piccola porzione di spiaggia uno vicino all’altro lasciando magari diverse centinaia di metri di spiaggia completamente liberi. Oppure l’abbronzatura, che non è un sinonimo di bellezza. Questo si nota sulle donne in particolare, che al mare indossano costumi interi, alcuni che addirittura coprono quasi interamente braccia e gambe. Tutto quanto abbiamo visto e raccontato sembra descrivere un Paese lontano anni luce da una guerra che formalmente non è mai finita. Uscendo, camminando, parlando non si percepisce paura, anche se qualcosa stona rispetto alle nostre abitudini. In metropolitana si trovano dei kit con maschere antigas contro gli attacchi chimici. Si vedono in giro alcuni militari americani e alcuni coreani. Al War Memorial Hall si vedono reperti (esposti come vasellame classico) sequestrati a militari nordcoreani. Ciò stupisce, soprattutto chi, europeo, è abituato a pensare in modo pacifico, almeno nel raggio di qualche centinaio di chilometri.

Un collega dell’università, alla domanda se avesse paura del Nord ha detto: “Non possiamo non pensarci. In fondo dobbiamo servire obbligatoriamente due anni nell’esercito. Un attacco dal Nord è però difficile da immaginare. Per loro sarebbe un suicidio assicurato e solo nel caso in cui volessero autodistruggersi potrebbero pensarlo. Io credo che il regime sia debole e la popolazione affamata. Tentano di opprimere con la paura e fare propaganda dopo il lancio di qualche missile (come nel 2009)”. Ai nostri occhi però la Corea del Sud, oltre al suo indiscutibile fascino, possiede anche una società molto particolare. Colpisce l’atteggiamento puerile di molti coetanei che, per esempio, non discutono mai di attualità (almeno con gli stranieri come noi), la pubblicità di chirurghi estetici in metropolitana per “occidentalizzare” l’aspetto, l’apollinea rigidità delle regole contrapposta alla dionisiaca esperienza dell’alcool.

Non può però passare inosservato il caos ordinato che anima la capitale, il livello tecnologico medio decisamente superiore che in Occidente. Seoul è una città  piena di vita ma è anche alienante a tratti. L’essere continuamente circondato da persone e da grattacieli è intrigante ma in alcune situazioni frustrante e pesante. Sono pochi i parchi in mezzo alla città, ancora meno le zone verdi. Ci si augura, soprattutto per quel popolo gentilissimo che abbiamo conosciuto, che la pazzia di Pyongyang non travolga i nostri coetanei nell’esercito. Probabilmente, al di là della propaganda che anche a Sud esiste (si veda il “Ministero della Riunificazione”) e in qualche modo serve, i problemi di un ricongiungimento sono troppo grandi perché possano essere affrontati dall’alleanza che abbraccia il Pacifico.

Penna Bianca e Federico Sguazzini –ilmegafono.org