Un clima surreale. Non c’è altro modo di descrivere la situazione in cui l’Italia si trova immersa in questi giorni. Forse per qualcuno non è così, forse ci si è abituati a convivere con un’eccezione che viene scambiata per normalità. Eppure non è assolutamente normale che, in un Paese democratico, un manipolo di parlamentari, ex ministri, cariche dello Stato, rappresentanti delle istituzioni si mettano in cammino, impettiti e tronfi, invadendo un palazzo di Giustizia allo scopo di intimidire dei magistrati e disturbarli mentre esercitano legittimamente le proprie funzioni. Un’accolita di servi, ciarlatani, voltagabbana prezzolati, vestali, pregiudicati, buoni a nulla, tutti riuniti sotto il palazzo a sfregiare l’Italia, la Costituzione, la giustizia, cantando un inno che hanno sporcato e vomitando parole irresponsabili, folli, sovversive. Un atto dimostrativo nefasto, una delle pagine più buie della storia repubblicana, a cui i vertici  dello Stato avrebbero dovuto rispondere con la fermezza di chi ha l’obbligo di difenderci da una deriva pericolosissima, in un momento nel quale la debolezza delle istituzioni è tangibile, preoccupante e quasi inedita.

Siamo a un punto di svolta, ma certe cose rimangono immutate. La risposta del Capo dello Stato, dopo l’incontro con Alfano e quello successivo con il comitato di presidenza del Csm, è disarmante, inspiegabile, difficile da digerire. Parla di preoccupazione comprensibile “dello schieramento che è risultato secondo nelle elezioni, di veder garantito che il suo leader possa partecipare alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento, che si proietterà fino alla seconda metà del prossimo mese di aprile”; richiama tutti ad un comune e generale senso di responsabilità, invitando politica e giustizia al reciproco rispetto e ad evitare “tensioni destabilizzanti per il nostro sistema democratico”. Parole che non mostrano una condanna netta di quanto avvenuto davanti al tribunale di Milano.

Una bacchettata ai pidiellini, ma “moderata” con parole ambigue nei confronti di una magistratura che sta semplicemente facendo il proprio dovere, ora che Berlusconi non è più premier e non può più addurre la continua e abusata scusante degli impegni internazionali come legittimo impedimento. Ancor peggio l’intervento del ministro della Giustizia, Severino, la quale afferma che solo con “il contributo di tutti nel rispetto della divisione dei poteri, che non vuol dire contrapposizione, si potrà giungere a delle soluzioni certamente complesse ma per le quali occorre mettere tutto lo sforzo e tutta la buona volontà al fine di arrivare alla soluzione di profili istituzionali, che riguardano il potere politico, e poi alle soluzioni dei profili giudiziari”.

L’Italia, dunque, non riesce a liberarsi del berlusconismo e delle scorie inquinanti che quasi venti anni di gestione scellerata del potere politico ci hanno lasciato in eredità. Nonostante le spinte popolari al cambiamento e all’abolizione dei privilegi in nome di un principio di eguaglianza a cui tutti devono essere sottoposti in identica misura, assistiamo all’indecoroso spettacolo di chi continua a pensare che alla formula “Tutti sono uguali dinnanzi alla legge” si debba aggiungere un eloquente post scriptum: “Ma qualcuno è più uguale degli altri”. Una concezione che, con l’invasione al palazzo di Giustizia, ha assunto connotati concreti, fisici, contro i quali ci si aspettava una reazione furiosa del Capo dello Stato, che ricordiamo, qualora lo avesse dimenticato, è anche il presidente del Csm. Aspettativa ampiamente delusa. A pensar male si potrebbe sostenere che il recente stop alla distruzione delle intercettazioni tra lo stesso Napolitano e Mancino abbia influenzato il presidente della Repubblica, spingendolo a rimanere tiepido nei confronti della magistratura.

Ad ogni modo, la conclusione che se ne trae è una: Berlusconi questa volta è in seria difficoltà. A voler rovesciare la chiave di lettura dell’azione squadrista dei suoi fedeli servitori, si può rintracciare un evidente segno di debolezza, un tentativo disperato di salvarsi da una sorte che lo attende da anni. Ora che il potere scricchiola e l’ultimo assalto al governo, seppur di poco, è sfumato, è difficile sottrarsi con mezzi leciti al giudizio della magistratura. Anche perché la gente pronta a scendere in piazza per attaccare le “toghe rosse” e difendere Silvio “il perseguitato” è sempre meno. Rimangono solo i militanti e gli amici, qualche elettore irriducibile, qualche casalinga disperata e un fragile nugolo di anziani che credono ancora che la lettera sull’Imu sia una promessa concreta.

La paura serpeggia dentro l’esercito del Caimano, perché se crolla lui affonda la nave e, oltre alla magistratura, adesso c’è anche il fantasma di un voto parlamentare che possa stabilire con legge (a patto che il Pd sia disposto a seguire Grillo su questa strada) la sua non eleggibilità. Se si respira bene il clima di questi ultimi tempi, si può sentire l’aria di una sconfitta finale di un sistema che non trova più appigli solidi nel Parlamento, in quelle consuetudini perverse e condivise che tutti hanno utilizzato come scappatoia e copertura delle proprie nefandezze. C’è, inoltre, un Paese stremato, che chiede lavoro e giustizia sociale, uguaglianza ed equità, stanco e stufo (e il voto lo dimostra) di beghe tra partiti, di questioni personali, di priorità fasulle. E così, i pilastri portanti della cattiva politica si riempiono di crepe, tremano, mentre le inchieste procedono nella direzione di una giustizia che, solo a causa di leggi personali e trucchetti istituzionali, è stata negata per troppo tempo.

Così, anche Nicola Cosentino, il potente reuccio, il burattinaio e manovriere del Pdl campano, entra in carcere, provocando amari incubi a Berlusconi e ai suoi, che forse si rendono conto che il tempo degli sfacciati e vergognosi dinieghi delle autorizzazioni all’arresto per imputati implicati in fatti gravissimi è terminato. Sono gli ultimi colpi di coda del “sistema Berlusconi”, un sistema che è come un puzzle in cui tutti i tasselli sono incastrati saldamente. La magistratura, finalmente, sta cercando di scardinarlo, nonostante le resistenze siano ancora tante, collose e unte. Perché se la parabola di Berlusconi è nella sua fase più declinante, il virus del berlusconismo è ancora vivo e bisogna mantenere alte le difese immunitarie di un Paese che ci ha educato e cresciuto con l’idea della giustizia uguale per tutti. Un’idea di cui, una volta cresciuti, abbiamo amaramente scoperto la persistente disfatta.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org