Prima o poi doveva accadere. Perché quando si sbaglia, alla fine, si paga. Ed è inutile attaccarsi a motivazioni “esterne”, al popolo ignorante, al qualunquismo, alle accuse nei confronti di chi ha espresso un voto considerato “inutile”, al perfido “giaguaro” che invece era un leone e che è stato (ancora una volta) sottovalutato. La cosa più saggia sarebbe l’autocritica, purché costruttiva, sincera, essenziale, a cui allegare le conseguenze sulle prospettive, sul progetto politico, sull’organizzazione interna e sulla leadership. Il Pd è alla resa dei conti, ad un punto di svolta definitivo. O si cambia davvero o ci si frammenta e si rischia di morire lentamente. Con un danno immenso per l’Italia, perché, piaccia o no, è l’unico partito strutturato in grado, per numeri ed esperienza, di contrapporsi al centrodestra. La botta è stata durissima e ha lasciato il segno. Qualcuno pensava di aver già vinto, di aver conquistato il consenso popolare con la solita ricetta, con la convinzione che il distacco dagli altri fosse sufficiente.

L’accordo con Sel era servito a ridare al partito di Bersani quella connotazione di sinistra che si era quasi frantumata con il sostegno al governo Monti e aveva corso il pericolo di incenerirsi durante le primarie, quando Matteo Renzi (tanto apprezzato a destra) rischiava di diventare il candidato premier. La campagna per il voto utile, le polemiche insistite quanto sterili nei confronti di Ingroia, le liti con Grillo, il nuovo incubo Berlusconi, il caso Mps: tutto ciò ha rivelato, in pochi mesi di campagna elettorale, una debolezza disarmante, una sensazione di incontrollabile paura, una sorta di ansia da prestazione che ha trovato la sua esatta misura nel deludente risultato elettorale.

“Siamo arrivati primi, ma non abbiamo vinto”: la frase di Bersani risuona in tutta la sua grottesca contraddittorietà e certifica l’orrore di una legge elettorale che non si è riusciti mai a cambiare, forse perché non si è stati troppo decisi nel farlo, ad esempio appoggiando con convinzione il referendum per abrogare il dannato Porcellum. Sarebbe ingeneroso, sbagliato e strumentale, però, dare tutte le colpe a Bersani, perché fornirebbe a troppi il capro espiatorio dietro al quale nascondere quasi venti anni di errori, svolte sciagurate, perversioni politiche, divisioni suicide. Il fatto è che il Partito Democratico ha fallito nel suo rapporto con la società, perché ha creduto che le primarie bastassero ad avvicinarsi alla gente, a misurare il termometro di un Paese in coma, in cui il battito del cuore è un ricordo di gioventù.

Non basta scoprire ogni volta la persistente pochezza culturale di una popolazione annebbiata dalla lunga strategia mediatica del Caimano e ancorata ad incrostate logiche clientelari che mettono la misera convenienza personale davanti alla salvezza della nazione. Non basta accusare Grillo senza distinguere la sua barbarie mentale e dialettica dalle ragioni e rivendicazioni legittime di un movimento che, al suo interno, comprende anche gente preparata, informata, entusiasta e positivamente attiva nei territori. L’idea che noi siamo sempre i migliori e gli altri sono solo ignoranti o sprovveduti può essere concessa ad un militante incazzato, che sogna una politica vera, ma non a chi mira a governare ed ascoltare le esigenze di tutti. All’indomani dei risultati, ho letto in rete i commenti di tanti militanti e dirigenti del Pd che adesso fanno una timida autocritica, si rendono conto di aver sbagliato qualcosa, di aver sottovalutato certi segnali.

Personalmente, trovo tanto stucchevole quanto inutile questo ennesimo ravvedimento postumo. Soprattutto quando si è ridotta la sinistra in pezzi, smembrandola pian piano, anno dopo anno, soffocando a tutti i livelli l’opposizione interna di chi chiedeva un rinnovamento, la sostituzione (e non la rottamazione, che è un principio sciocco e qualunquista) delle cariatidi che da venti anni si presentano all’opinione pubblica per fare mostra della loro innata capacità di sbagliare. La classe dirigente del Pd, quando ha governato (nella forma precedente di Ulivo o Unione) lo ha fatto male, senza  realizzare ciò che era prioritario. In più, pesa come un macigno il peccato originale dei Ds, vale a dire la decisa svolta neoliberista, una deriva a cui è stata condannata la parte migliore della storia e della tradizione degli eredi del Pci, troppe volte rinnegata.

Il Pd ha pagato il legame stretto con certi poteri del mondo finanziario e industriale (a cui si sono perfino concesse candidature shock), preferito al mondo del lavoro, all’ambientalismo, ai giovani, ai movimenti, a tutti coloro che prima di Grillo chiedevano di rifiutare il compromesso, di non svendere la politica al calcolo, di battersi per i diritti e non sacrificare la propria storia e le proprie antiche e nobili vocazioni alla logica immorale delle royalties di potere. Si è scelto di abdicare su certi temi, consegnati così a Grillo, il quale, pur se in modo populista, incarna anche il malcontento generato dalla lunga e logorante opera di distruzione della sinistra realizzata negli anni da Ds, Ulivo, Unione e Pd (con la complicità di coprotagonisti  illuminati come Fausto Bertinotti, Francesco Rutelli e altri). La campagna elettorale poi è stata penosa, consentendo a Berlusconi di recuperare terreno utilizzando sempre lo stesso cliché, quello delle tasse da abolire o ridurre (un settore in cui la sinistra non riesce proprio a farsi capire).

Adesso ci si trova dinnanzi ai cocci, o meglio alle crepe. Perché non è mai troppo tardi, ma a patto che si prenda davvero coscienza delle proprie responsabilità, senza attuare il consueto gioco di scaricarle su altri. Evitando magari volgarità e bestialità come quelle scritte nei corsivi di alcuni guardiani del faro che, su qualche giornale amico, si lanciano in paragoni blasfemi tra questa situazione e il ’68 oppure auspicano vergognosamente l’esilio di persone che danno lustro a questa nazione, colpevoli solo di aver esercitato il proprio diritto al dissenso e alla libera partecipazione.

Questo è il momento delle scelte, di affrontare una situazione delicata avendo il buon gusto di evitarci altri spettacoli indegni. Nella speranza che, Grillo permettendo, si faccia ciò che serve per cambiare le regole della competizione, sbrigare le faccende urgenti, governare la situazione (e farlo bene) e poi tornare al voto. Nel frattempo, però, sarebbe meglio riaprire le sezioni di partito (non solo nel Pd, ma anche in Sel, visto l’annunciato suicidio politico di Vendola, mentre negli altri partitini di sinistra sarebbe il caso di crearle le sezioni e iniziare a discutere), guardarsi in faccia, ascoltare le minoranze, dar loro spazio e mettere da parte chi ha sbagliato tutto. Il tempo delle barzellette, delle verginità ricostruite e della moderazione è terminato. Si cambi. Ora o mai più.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org