Non mi interessa stabilire chi abbia iniziato e perché. Non mi importa nemmeno partecipare a un dibattito tra “tifoserie”, tra chi parteggia per la polizia e chi la attacca, anche se è davvero arduo difendere chi ha persino lanciato lacrimogeni dalla finestra di un ministero. Qualcuno dirà che è sempre meglio di quando lanciavano gli anarchici…ma direi che sarebbe preferibile che le finestre di un’istituzione venissero usate, almeno ogni tanto, per cambiare l’aria. Ad ogni modo, voglio stare calmo e sedermi accanto al mio principio di non violenza, tenendolo saldo tra le braccia per non smarrire la direzione della mia coscienza e mantenere lucidità. Quello che accade in questo Paese non è mai nuovo, è un film già visto, con un copione identico, con protagonisti uguali, soliti, nel loro triste e drammatico ruolo. Le piazze, le strade, migliaia di gambe e di braccia, le voci, i megafoni, la rabbia di una generazione che resiste dinnanzi ad un mostro dalle sembianze indefinibili, gigantesco, soffocante.

Un mostro che ha già affondato gli artigli dentro il loro diritto di sognare, dentro il loro diritto al presente e al futuro. Ragazzi, studenti, finalmente uniti agli operai, ai disoccupati, agli insegnanti, ai precari, a tutto quel mondo di persone che la politica finge di ignorare, ma di cui in realtà si interessa, in maniera deviata e sadica, disegnando, indisturbata, l’architettura delle gabbie e delle macchine di tortura dentro cui le imprigionerà. Una protesta, un momento che coinvolge l’Europa e che chiama in causa l’intero modello economico, di cui la crisi mostra la faccia più vera e spietata. Ci sono le banche, con le loro vetrate e i loro atrii puliti, ci sono le finanziarie, i call-center, i compro oro, simboli di un sistema in cui il denaro passa sopra tutto, scavalca la dignità, l’umanità, la giustizia, la cultura, l’istruzione, la cittadinanza.

Tutto brucia e stride dentro gli occhi di un ragazzino di 15 anni che sciopera non per andare a casa a godersi un giorno senza scuola e qualche videogame, ma per unirsi al dissenso, per urlare la sua voce giovane e acerba. Una voce incazzata, di una rabbia che qualcuno ha pompato, spinto, istigato. Sono drammaticamente soli in quella piazza, con quella rabbia, quei brividi, quell’adrenalina che soffoca la gola quando senti il rumore dei manganelli che battono sugli scudi, quando vedi quei caschi, quelle divise, quel simbolo militare di uno Stato che si ricorda di te solo quando deve richiamarti all’ordine e che non sa rispondere quando qualcuno domanda perché non si manganella anche il mafioso di turno che gira e delinque alla luce del giorno in un paesino divenuto feudo di famiglia. Così è facile scagliarsi contro quel simbolo del potere, corpo che sembra indistinto, ostacolo da abbattere come fosse una transenna o una vetrina.

Sono tre le riflessioni che derivano dai fatti del 14 novembre. La prima è che nel marasma della violenza, non c’è spazio per il ragionamento, per l’uomo, per la somiglianza tra vittime. Perché emerge rapida una differenza, sostanziale tra gli studenti e i poliziotti. I primi sono pressoché disarmati, ingenui, sinceri. Quei poliziotti (non tutti) che lanciano lacrimogeni da un palazzo o che picchiano ragazzi inermi, prendendoli alle spalle, andando a colpire nel mucchio indifferenziato di un “nemico” costruito senza delinearne contorni e sentimenti, sono un male incurabile da estirpare se si vuole mantenere rispettabile il corpo dentro cui si muovono. Perché non ci sono giustificazioni, né ambientali né situazionali, di fronte ad un calcio o ad una serie di manganellate in testa ad un ragazzo immobilizzato e steso per terra. Ed è inaccettabile la difesa corporativa che il ministro dell’Interno e i vertici delle forze dell’ordine fanno. Né si può ogni volta parlare di casi isolati, perché le cronache di questo tipo si ripetono con una costanza imbarazzante e grave.

La polizia dovrebbe essere addestrata a non perdere la calma, a gestire certe situazioni anche con durezza e decisione, ma senza mai spingersi ad atti di violenza gratuita. La legittima difesa non è diritto al pestaggio di un innocente. Non ti si chiede, caro “Soldato blu” (come ti ha chiamato Grillo nella sua ridicola apologia della retorica elettorale), di togliere il casco e metterti tra la gente e contro i tuoi colleghi. È una stupidaggine senza senso, perché qui non siamo in Portogallo e non c’è alcuna rivoluzione in atto, non c’è alcuna base culturale che la promuova (sebbene qualcuno pensi di spacciare il caos e il populismo per impeti rivoluzionari). Mantieni il tuo casco, difendi il tuo corpo dai tuoi stessi colleghi, mettiti davanti a chi usa il manganello impropriamente e poi denuncia, fai i nomi, chiedi che vengano espulsi dal corpo di polizia. Altrimenti subirai sempre e sarai sempre guardato con sospetto.

Seconda riflessione, dedicata all’altra parte della barricata. In certi ambienti politici di estrema sinistra e di estrema destra, è il momento di smetterla con le forzature ideologiche, con logiche anacronistiche e sistemi organizzati che hanno nella violenza la loro soluzione finale. Dovete sparire, perché esistendo fate del male a voi stessi e alla causa che migliaia di persone, pacificamente, sostengono e per la quale quotidianamente lottano, facendo sacrifici immensi. Continuando a predicare odio diventate cattivi maestri, responsabili di mandare al massacro dei ragazzini, impreparati e malleabili, a cui lasciate pagare il prezzo delle vostre azioni e dei vostri discorsi da disadattati mascherati da finti rivoluzionari. Inoltre, siete funzionali al potere che fingete di voler contrastare. Ma questo lo sapete bene. Non siete diversi dal “celerino” che rompe la testa di un ragazzino: loro la riempiono di sangue ed ematomi, voi di istinti suicidi e di fanatismo inconscio.

E, infine, una terza riflessione la merita il potere: c’è un sistema politico che da 20 anni crea le condizioni affinché la violenza esploda, fomentando la rabbia attraverso le scelte, le direzioni prese, l’indifferenza, la chiusura, l’arroganza, la sopraffazione, l’umiliazione continua del talento e del lavoro, dell’istruzione e del welfare, della propria sfera più intima e dei diritti. Sono loro i responsabili, quelli che hanno governato pensando che il Paese fosse una casa privata, dove rinchiudersi insieme ai grandi potentati economici e finanziari, per banchettare, per regalarsi una grande abbuffata fatta di sprechi e tagli, lasciando che la società rimanesse fuori, con i propri problemi intatti, con il rubinetto senz’acqua e le tavole piene di avanzi marci e scheletrici.

Ecco perché dentro il fumo e il sangue delle piazze, dietro i manganelli, le pietre e le mazze c’erano i volti di tutti coloro che hanno raggirato l’Italia: sia i politici di professione che i tecnici, sia i vecchi che i nuovi, compresi quelli che pensano di risolvere le cose confidando nel crollo di tutto, nella dissoluzione di ogni parte del sistema, incluse le strutture della democrazia costituzionale. Ecco perché, dopo aver condannato le violenze della polizia e quelle di alcuni manifestanti organizzati, credo che si debba spostare l’attenzione altrove, ad un livello superiore, quello che si nasconde in cabina di regia. Laddove gli ordini non si eseguono, ma si creano e si danno. Di nascosto.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org