Il tempo è scaduto. Dopo 17 anni al comando della Regione Lombardia, Roberto Formigoni compie i suoi ultimi passi, cacciato via dagli scandali che hanno investito lui e la sua giunta, spinto fuori a forza nonostante la sua arroganza e l’iniziale, impudica volontà di non dimettersi, di non sciogliere la colla di interessi e di potere che lo tiene attaccato ad una poltrona che scotta. Il governatore lombardo rappresenta forse uno degli ultimi pilastri di una tragica fase politica avviata nel 1994, nell’immediato post tangentopoli, con la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Un’epoca ormai in fase terminale, nella quale si ascolta quotidianamente lo scricchiolio di un edificio semi-abbandonato, il Pdl, destinato ad una prossima e definitiva demolizione. Il potere del “Celeste” sembrava impossibile da scardinare, malgrado gli scandali su mazzette e corruzione dei suoi sodali, una gestione quantomeno generosa nei confronti dei potentati a lui vicini, la penosa questione delle liste elettorali colmate dalle procaci protagoniste dei festini dell’ex premier, ecc. C’è voluto uno shock, la paura terrificante di un condizionamento diretto della criminalità organizzata nella scelta dei rappresentanti istituzionali. Il caso Zambetti ha causato la deflagrazione del sistema Formigoni, ha costretto persino gli alleati (che fino a ieri banchettavano con lui) a prendere le distanze, per non affondare insieme all’ex commensale o per cercare di rifarsi una verginità sottraendosi ai sospetti e all’indignazione degli elettori.

Così, l’ultimo baluardo dell’impero berlusconiano si sgonfia, si affloscia nella maniera più misera e indecorosa. È l’onda lunga di un declino iniziato ormai due anni fa, passato attraverso le dimissioni di Berlusconi, le sconfitte elettorali di Milano e Napoli, le vicende giudiziarie in Lombardia e Lazio, la stanchezza della gente che si esprime nella crescita di consenso di formazioni politiche nuove che contestano apertamente e genericamente il sistema politico attuale. In realtà, i primi segnali di cedimento si erano registrati, ancora una volta, in Sicilia, con la spaccatura del partito del Cavaliere in due correnti, prima della scissione di una di esse, guidata da Gianfranco Micciché, e la nascita di un nuovo (?) soggetto politico. Adesso, con Berlusconi ridimensionato e il suo partito ai minimi storici, sembra finalmente alle porte una fase nuova, che nasce da una maggiore consapevolezza dei cittadini, svegliati da movimenti che nei territori si battono a difesa dei diritti delle popolazioni, dei lavoratori, per la tutela dell’ambiente, per lo sviluppo sostenibile, creando coscienza e sollecitando un maggiore livello di attenzione. Perfino le urla populiste di Grillo o l’invito di Renzi alla “rottamazione” sono funzionali a questa maggiore attenzione verso ciò che accade nel Paese.

Il problema, però, sono proprio le sponde politiche, che non riescono a coagulare e trasformare in proposta e o progetto politico le istanze che provengono dai movimenti, dalla società civile. Chi ha fatto opposizione ai quasi 20 anni di Berlusconi non ha il volto fresco e la coscienza pulita necessari a guidare il cambiamento: troppi errori, troppi compromessi e una fallimentare gestione del potere nelle due occasioni in cui la gente aveva riposto fiducia in loro. Gli attori nuovi non riescono ad uscire dalla rete di un facile e dannoso populismo. La segmentazione e la litigiosità dei vari componenti dello schieramento opposto al Caimano, dunque, continua ad essere un problema serio, come dimostra la vicenda delle elezioni regionali in Sicilia, dove Crocetta e Fava hanno sprecato, probabilmente per idee diverse, ma più precisamente per banale narcisismo, una delle più grandi occasioni storiche di cambiamento che l’isola abbia mai avuto.

Grillo, nel frattempo, grazie al buon lavoro del movimento nei territori e grazie alla sua capacità (molto “leghista”) di solleticare lo stomaco degli elettori politicamente meno raffinati, aumenta il suo consenso e, contemporaneamente, il livello di caos e di scontro in un Paese nel quale, in pochi mesi, si sceglieranno le guide di quelle che forse sono le tre regioni più importanti, sul piano politico e non solo: Lombardia, Lazio e Sicilia. Poco tempo anche per prepararsi, per confrontarsi, per discutere non più (e non solo) di regole e di primarie (bisogna affrettarsi a farle), ma di programmi, cercando di assumersi un impegno vero e serio nei confronti degli elettori, presso cui è fondamentale tornare. C’è un’Italia devastata dalla crisi, ci sono province e comuni pieni di situazioni drammatiche, di lotte quotidiane, dolori e recriminazioni.

È lì che bisogna andare, parlare con la gente, sintetizzarne le istanze, smettere di far promesse e impegnarsi a scomparire dalla scena se non si riesce, sin da subito, a trovare soluzioni ai problemi che attanagliano la vita dei cittadini, non di una parte di loro ma di tutti loro: lombardi, laziali, siciliani, campani, veneti, sardi, ecc. E anche di coloro che italiani non sono, ma che in Italia vivono e lavorano, troppo spesso senza diritti e senza tutele. S’odono molti buoni propositi in questi giorni, molte promesse di innovazione, molte maniere nuove di approcciarsi alla politica. È una cosa positiva, ma il sospetto è che tante parole arrivino a noi sospinte dal vento ipocrita della campagna elettorale. Un vento conosciuto. Fin troppo. Chissà, questa volta, a quale soffio gli italiani decideranno di offrire ancora le proprie vele.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org