Sapere. Al tempo di Socrate era l’universo scibile, qualcosa che nessuno poteva mai possedere pienamente, perché il percorso della conoscenza e della verità è infinito. “L’unica cosa che so è di non sapere”, diceva il filosofo. Solo chi ne è cosciente sente il bisogno di conoscere e ricercare. Questo ai tempi di Socrate. Al tempo nostro, invece, quello di Andreotti, di Scajola, della Polverini, di Formigoni, la parola “sapere” e ancor più la sua negazione ricorrono in un’accezione molto meno nobile, dentro cui la filosofia non trova spazio, nemmeno un angolo stretto, una sedia, un muro a cui poggiarsi. Nella terra dei non sapienti che sanno di sapere trovano spazio solo le menzogne e la miserabile messinscena di chi crede che il popolo sia tutto bue e anche un po’ asino.

Certo, in parte è così, perché in Italia, fino al momento prima che un magistrato riveli l’inganno su uno dei tanti furbi di palazzo, quella fascia di buoi e asini che li hanno votati, e spesso anche quelli che non li hanno votati, continuano a venerarli e a scaldarne il consenso, come un sacrilego presepe di un Natale macabro. Per fortuna, però, ci sono anche gli altri, quelli che non avevano dubbi, che si erano già accorti, che sono coscienti, svegliati da un allarme che rintraccia il valore morale dei fatti e degli uomini, senza attendere sentenze o dimissioni. Ci siamo anche tutti noi, che non confondiamo una prescrizione con un’assoluzione, nemmeno quando i lacchè di corte organizzano esultanze barbare, dipingono sorrisi finti o offrono guantiere di cannoli.

C’è un’Italia che dorme e giustifica, perché in quel sonno costruisce anche la propria assoluzione, fatta di convenienze e di disimpegno, e poi c’è un’Italia che vigila e che non crede a una parola di quei comandanti di plastica che continuano a costruirsi alibi griffati con l’etichetta “a mia insaputa”,  un marchio rampante che ormai ha sbaragliato il mercato dei vecchi “non è vero” o “è un complotto”. La Polverini non sapeva che i suoi sodali stavano distruggendo la Regione Lazio, non sapeva dei soldi sottratti ai contribuenti, delle spese folli, delle feste, dello sperpero di quel denaro che poi non si trovava per i servizi sociali, per i disabili, per la cultura, per il lavoro? 

Lei, guida della Regione della Capitale, che non sa nulla né si accorge di nulla, come se vivesse altrove, come se non facesse politica. Si mostra sconvolta, chiede di far piazza pulita altrimenti si dimette, alla fine si deve dimettere comunque. Supponiamo di volerle credere, di pensare che sia in buonafede: ne dedurremmo una imbarazzante incapacità politica, la figura deprimente di una sprovveduta che continua a parlare e sorridere da una sedia di legno, mentre i suoi vicini ne rosicchiano il telaio e i piedi facendole perdere l’equilibrio.

Un tonfo, una caduta misera nell’Italia del “non sapevo”, quella di Renata Polverini, ennesima vittima di quella brama di potere che crolla insieme alle macerie del potere stesso, senza che vi sia, insieme alle dimissioni (atto dovuto), l’ammissione del proprio fallimento e delle proprie responsabilità. Non si ricandiderà, dice. Lo speriamo, così come speriamo che anche gli altri protagonisti del triste coro della pregiata ditta “a mia insaputa” escano di scena e non abbiano più l’opportunità di rientrarvi. Non per via di una sentenza, delle loro dimissioni o dell’annuncio di non ricandidarsi, ma per volontà della gente, per il sorgere di una nuova coscienza che metta al primo posto il principio del giudizio morale, della sua inappellabilità.

Gli italiani devono comprendere che non spetta ai magistrati stabilire l’inadeguatezza di un ruolo politico o istituzionale per chi ha delle responsabilità che sono prima di tutto morali e poi politiche e giudiziarie. Spetta solo a loro, a noi, ad esempio, pretendere che non vi siano altri Giulio Andreotti, altri potenti che attraversino la storia d’Italia incontrando il male e il marcio e poi fingendo di non sapere a chi hanno stretto le mani, da chi hanno ricevuto favori e regali o chi hanno avuto accanto. A ben pensarci Andreotti è stato il precursore, l’avanguardista grigio: è lui il padre padrone del marchio del “non sapere”, gli altri sono tutti figli di un diavolo minore che possiede l’Italia. Un’Italia che gli italiani non hanno mai veramente deciso di esorcizzare.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org