Ci mancavano solo gli sciacalli. I soliti. Creature impazzite, terrorizzate, che attaccano le loro unghie ingiallite sulla pelle dura di una storia venuta a chiedere il conto, un conto fatto di verità pronte a svelarsi e di responsabilità pronte, forse, ad essere finalmente assegnate. Nel piano di assalto alla procura di Palermo, rea di compiere il proprio dovere nel cercare di scoprire cosa realmente si nasconda dietro le stragi del ’92, l’improvvisa scomparsa di Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale, diventa occasione per nuovi veleni e nuove polemiche. La politica italiana celebra il suo rituale macabro e squallido per sfruttare un momento drammatico e umano a vantaggio delle proprie strategie di auto-conservazione. Al di là dei complottismi e delle congetture su una coincidenza che qualcuno considera sospetta (ipotesi non dimostrabile e dunque non commentabile), pochi minuti dopo la notizia del decesso si è scatenato il valzer degli sciacalli, pronti in branco ad assaltare la preda, lesti a rintracciare i presunti colpevoli di quello che, fino a prova contraria, rimane un evento naturale, fortuito, legato al caso.

I versi goffi e rozzi di chi si scopre moralista solo quando si aprono spazi immensi e fertili per la retorica, invadono la sfera di un rispetto e di un buon senso lontani dall’agire, dal modo di pensare e dalla natura ipocrita di certi esponenti politici e dei loro ingombranti servi della gleba che siedono dentro giornali di quart’ordine a far da cassa di risonanza ai padroni generosi. Niente di nuovo per questa nazione, che tante volte ha assistito a spettacoli di simile bassezza. Era già accaduto con Marco Biagi, quello a cui era stata tolta la scorta, colui che, per via della propria giustificata preoccupazione, era stato definito un “rompicoglioni” dal ministro Scajola: penoso vedere, post-mortem, gli stessi detrattori utilizzarne il cognome per spingere all’approvazione di una legge basata sul suo progetto di riforma del mercato del lavoro, un progetto incompleto la cui attuazione, secondo lo stesso giuslavorista ucciso dalle Br, era vincolata all’adozione di tutta una serie di misure ed interventi che non sono mai stati adottati e che non è stato possibile nemmeno discutere senza essere accusati di “oltraggiare” una vittima del terrorismo o di essere complici morali degli assassini.

A chi giova adesso la morte di D’Ambrosio? A tutti coloro che temono l’operato della procura di Palermo e della magistratura in generale. A quei membri politici del Csm che chiedono provvedimenti contro un magistrato come Scarpinato, reo di aver espresso un’opinione legittima, sensata e condivisa in occasione della commemorazione di Paolo Borsellino. A quelli (come il vicepresidente Vietti) che, in accordo con una parte ampia delle forze politiche, spingono affinché si intervenga sulle intercettazioni, trovando appoggio nelle inattese e disarmanti sponde del Quirinale. Agli esponenti di spicco del Pdl, quelli che applaudono Dell’Utri e Berlusconi e non protestano se ad eroe di partito è stato eletto un boss che ha taciuto e non ha voluto collaborare con la giustizia, portandosi nella tomba i suoi segreti. Alle venerabili signorie di Pd ed Udc che fanno muro attorno all’azione inopportuna del Capo dello Stato.

A tutti coloro che, anche all’interno del composito e diviso mondo dell’antimafia, criticano Antonio Ingroia, costretto ad andare all’estero pur di salvaguardare il lavoro della procura e di far abbassare il termometro della pressione, di spostare il bersaglio e sperare che, in tal modo, i colleghi possano continuare con più serenità la loro necessaria opera di ricerca di una verità che sembra ormai prossima a venir fuori. Una scelta, quella di Ingroia, piena di amarezza, che fa bollire il sangue nelle vene di chi vorrebbe vivere in un Paese nel quale un magistrato possa compiere il proprio dovere senza subire il massacro mediatico che Ingroia e i giudici palermitani stanno subendo.

Ma questa è la nazione in cui il principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge è divenuto solo uno slogan da apporre nelle aule dei tribunali, come sorta di beffardo e impietoso promemoria per un obiettivo che appare irraggiungibile, smarrito  dentro i confini sfumati di un’utopia angosciante nella sua severa e reale consistenza di orizzonte lontanissimo. È la politica che tiene lontana la bandierina del traguardo, una politica che si divide tra giustizialista e garantista, ma che non sa mai essere giusta. Una politica che punta i fucili su chi opera e lavora per supplire alle sue mancanze, per ripulire le sue deiezioni lasciate sul pavimento pregiato della democrazia e restituire dignità, speranza e giustizia ad un popolo abituato ad accettare, ad affidarsi a chiunque prometta di abbattere tutto, devastare tutto, quasi fosse irretito in un barbaro desiderio di ripulirsi la coscienza demolendo le pareti di casa propria, vandalizzando il proprio futuro e quello dei propri figli.

È un servizio alla democrazia ed alla dignità dell’Italia quello che i magistrati palermitani, dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino, stanno provando a compiere, nonostante gli ostacoli, il clima e le acide reazioni degli sciacalli di potere, dei burattinai oscuri e degli assassini di Stato, carnefici e complici nascosti come topi di fogna, come boss rozzi e lerci che consumano cibi pieni di vermi dentro i casolari del nulla di una vita drogata da un potere che ora trema, vacilla, decade. In mezzo a quelle crepe dobbiamo infilare il nostro senso di Stato, la nostra rabbia costruttiva, il nostro sostegno incondizionato alla procura di Palermo e, soprattutto, la nostra legittima pretesa di avere presto una nuova classe dirigente, illuminata, ispirata ai valori della Costituzione e che non deleghi alla magistratura la difesa della democrazia e la definizione di ciò che è o non è morale dentro i confini di uno Stato moderno e civile.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org