Qualche giorno fa si è celebrato l’anniversario dell’attentato che nel 1992 colpì il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta. Come ogni anno, anche questa volta, tante, diverse voci si sono unite gridando il desiderio di conoscere la verità, una verità che tutt’oggi ci appare ancora nascosta agli occhi di tutti. Un giorno che, come sempre, lascia un senso di amarezza, rabbia e tristezza per la perdita di un grande uomo e anche di quei “semplici soldati”, di quegli agenti  che vivevano e sono morti nel compiere con generosità il proprio lavoro, che era quello di proteggere un magistrato che stava cercando di fare luce sui rapporti tra mafia e politica. È anche a loro che, con queste poche parole, vogliamo rivolgere il nostro pensiero. A loro indirizziamo i nostri cuori, i nostri ricordi. L’anniversario della morte di Borsellino deve diventare anche un momento in cui ricordare tutti gli uomini di scorta che morirono nelle due terribili stragi del 1992: Emanuela Loi, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Troina e Agostino Catalano, in via D’Amelio; Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, a Capaci. 

Sono nomi di persone che non ci sono più, morte nell’esercizio della loro professione. Purtroppo, l’Italia ha visto cadere tantissimi uomini delle forze dell’ordine, lavoratori di uno Stato che, troppo spesso, li ha mandati al massacro. Pensiamo all’attentato del commissario di polizia Ninni Cassarà, ucciso nell’agosto del 1985, morto tra le braccia della moglie e davanti agli occhi della figlia. Con lui cadde anche uno dei due agenti, Roberto Antiochia, mentre il secondo, Natale Mondo, morì 3 anni dopo, sempre per mano mafiosa. Antiochia rappresenta un esempio assoluto di come un poliziotto che combatte contro la mafia intenda la propria professione. Egli, infatti, dopo aver collaborato con il commissario Beppe Montana, ucciso appena una settimana prima, si trovava in ferie e con il trasferimento a Roma già in tasca, ma decise di aiutare Cassarà nelle indagini sugli assassini dello stesso Montana.

Antiochia, davanti al fuoco dei killer si mise dinnanzi a Cassarà per fare da scudo con il proprio corpo. Un gesto eroico che però non salvò la vita al commissario, ma che è la prova del valore di uomini che credono nella giustizia e nella libertà.  E poi pensiamo a Domenico Russo, poliziotto ucciso nel 1982, a Palermo, ucciso da Cosa nostra nel corso dell’attentato in cui morirono il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro. Anche uomini spesso molto giovani, sempre al servizio delle istituzioni, risultano nell’elenco dei morti ammazzati dalla criminalità organizzata. Uno di questi fu Pasquale Paola, trentaduenne agente di Polizia, morto nell’agguato di stampo camorrista che colpì anche il vicequestore di Napoli, Antonio Ammaturo, il 15 luglio 1982. Nello stesso anno moriva anche Calogero Zucchetto, poliziotto palermitano di appena 28 anni, collaboratore di Cassarà e molto attento ai fatti di mafia.

O Salvatore Nuvoletta, carabiniere di Marano di Napoli, ucciso dalla camorra, il 2 luglio 1982, a soli 20 anni, perché accusato sbrigativamente dai camorristi di essere colui che, durante un conflitto a fuoco, aveva sparato il colpo che aveva ucciso il camorrista Mario Schiavone. E i nomi non finiscono qui. Ad essi dovremmo aggiungere quello di Boris Giuliano, poliziotto palermitano e investigatore della Squadra mobile della sua città; o quello di Giuseppe Russo, ufficiale dei Carabinieri ucciso a Ficuzza nel 1977 perché si occupava del caso Mattei, o quello di Nino Agostino, che probabilmente indagava sui mandanti del fallito attentato dell’’Addaura ai danni di Giovanni Falcone e su eventuali rapporti tra mafia e parti dello Stato.

L’elenco dei morti ammazzati dalla mafia è davvero lungo e tra i nomi più celebri non dobbiamo dimenticare anche loro, vittime del proprio lavoro, forse, ma soprattutto vittime di un sistema corrotto in cui la criminalità organizzata vive di connivenze e complicità. Per questo, abbiamo il dovere morale di ricordare fortemente tutte quelle persone, poliziotti e carabinieri, che hanno accompagnato il lavoro dei magistrati con il proprio coraggio o intuito. Vite spezzate di gente che lavorava con passione ed impegno, per una paga misera e spesso senza mezzi adeguati. Gente con il cuore dentro la divisa. Tutte qualità, queste, che devono essere onorate anche oggi, persino da chi, in quegli anni, non era nato o era ancora troppo piccolo. Le nuove generazioni devono accogliere il coraggio e l’onestà di tutti questi esempi, proprio affinché il loro sacrificio non sia vano, ma, anzi, sia propulsore di un impeto di rinnovato spirito civico e senso di giustizia. È una battaglia molto dura, ma forse, questo Paese, ha ancora in corpo tutte le forze e le capacità necessarie a rialzarsi e liberarsi.

Giovambattista Dato -ilmegafono.org