Ci risiamo. Ancora una volta la criminalità organizzata ha deciso di alzare il tiro per contrastare l’intensa attività di una penna importante del giornalismo siciliano. A farne le spese, questa volta, è Enrico Bellavia, collaboratore de L’Espresso e della redazione palermitana di Repubblica. Il giornalista, infatti, proprio qualche giorno fa, ha denunciato di aver ricevuto una lettera intimidatoria anonima nella quale era espressa chiaramente l’intenzione di voler interrompere il suo lavoro. “La smetta di occuparsi di queste cose, lei con il suo amico Di Carlo, perché queste cose del passato fanno male”. Sono queste le parole che il giornalista ha ricevuto lo scorso 29 giugno, parole subito poste al vaglio della Digos e della Squadra Mobile di Palermo. Ma a cosa si riferiscono? E qual è il motivo di tali minacce?

Secondo quanto ha affermato lo stesso Bellavia, il significato di certe parole starebbe in un’intervista ottenuta qualche giorno prima con il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, ex boss di Altofonte, a proposito della famosa trattativa tra Stato e mafia. L’intervista, uscita poi nella sezione palermitana di Repubblica, non sembra comunque essere l’unico punto sul quale gli inquirenti stanno indagando. L’ex boss, infatti, ha collaborato con lo stesso Bellavia per la stesura del libro “Un uomo d’onore”, uscito nel 2010, nel quale si parla della nota trattativa. Si tratta quindi di una collaborazione che ha puntato i fari su fatti del passato, fatti che molti vogliono e vorrebbero sotterrare, ma che Bellavia ha più volte tentato di far riemergere. È per questo, quindi, che nella lettera si parla di “cose passate”, oltre che dell’“amico” Di Carlo.

Sono parole ben precise, che racchiudono in poche righe anni di segreti e che puntano chiaramente a colpire l’immagine e il lavoro del giornalista. Nonostante ciò, Bellavia, nel corso di un’intervista rilasciata all’agenzia Ossigeno per l’informazione, ha parlato anche della possibilità che ad inviare la lettera non sia stata la criminalità organizzata. “La mafia – ha affermato –  quella che spara, è raro che minacci. E poi chi ha interesse a minacciare un giornalista? Nel mio caso non penso che sia la mafia a minacciare. Penso che l’avvertimento arrivi dalla ’zona grigia’”. Quella zona grigia a cui ha fatto riferimento un altro giornalista siciliano, Nino Amadore, riferendosi a gente che mafiosa non è, ma che con questa criminalità ci fa affari e ci convive. È possibile, quindi, che il tentativo di intimidire Bellavia venga da un’altra entità, da un soggetto diverso e non direttamente mafioso.

Ma che si tratti del boss di turno o di un anonimo colluso con la mafia, la situazione cambia davvero poco. Il problema principale sta nel fatto che, ancora una volta, l’Italia si dimostra come uno dei luoghi più pericolosi per i giornalisti e per chi vive di giornalismo. Scrivere, raccontare verità, sfidare l’omertà più aberrante: tutto ciò è quasi impossibile nel nostro Paese. Diventa quindi di primaria importanza fare il possibile affinché questo “status” cambi notevolmente. Perché il problema dei giornalisti e di chi scrive è duro a morire, in una società collusa e corrotta come la nostra. Forse, il punto centrale della questione si trova proprio in noi, nella società che noi formiamo. Certo, negli ultimi anni la gente sembra essersi risvegliata dal torpore che la potenza mafiosa ha spalmato sulle nostre coscienze (lo stesso Bellavia è d’accordo con chi afferma che la situazione si sta evolvendo), ma c’è ancora un bel po’ di strada da fare e questi intoppi non devono prolungarsi ulteriormente.   

 Giovambattista Dato -ilmegafono.org