Nella casa della mia bisnonna c’era una foto in bianco e nero di un uomo, sui quarant’anni, il viso squadrato e massiccio. Quando chiedevo chi fosse mi dicevano: “Nonno Antonio”. Da piccolo non capivo le vaghe risposte alle mie ulteriori domande. Per di più chi ha sofferto tanto è difficile che poi abbia voglia di parlare e di pensare di nuovo a quello che è stato. Il ricordo, penso, spesso è un lusso che si concede chi non ha patito. Io questo lusso me lo sono concesso per la prima volta alle medie, quando il professore di Matematica e Scienze ci fece partecipare a un progetto sui 50 anni della tragedia di Ribolla. Perché sì, le colline a ridosso della Maremma hanno visto morire 43 uomini il 4 maggio del 1954 nella miniera di lignite di Ribolla, una frazione del comune di Roccastrada.

Quella maledetta mattina, intorno alle 8 e 40, un’esplosione di gas (il grisou) uccise i minatori che stavano lavorando nella sezione Camorra Sud. Inutile dire che per i soccorritori ci fu da subito poca speranza. Nelle miniere come quella, il gas fuoriusciva costantemente e i ventilatori predisposti servivano per impedire che il gas si concentrasse e diventasse pericoloso. C’era stato il Primo Maggio e la miniera era rimasta chiusa. I capisquadra non volevano scendere, volevano far girare le ventole a vuoto per disperdere il gas. Ma non ci fu nulla da fare. Allora sotto con la prima “gita” e poco dopo lo scoppio. Là sotto morirono uomini, padri di famiglia e anche ragazzi più giovani di chi scrive, provenienti da tutta Italia. Mio nonno fu ritrovato poco prima che iniziasse il funerale a cui parteciparono anche Giuseppe Di Vittorio e Giancarlo Pajetta.

E così il 4 maggio è diventato un giorno che, intorno alle colline metallifere, è impossibile scindere dal Primo di Maggio. Oltre al mio avo, che ci hanno portato via 36 anni prima che nascessi, il Primo Maggio è un’occasione anche per ricordare e per riflettere sulle scie che tragedie come questa si lasciano dietro. E il pensiero corre a persone come la mia bisnonna con i suoi quattro figli da mantenere, tre dei quali erano bambine. Perché quando si parla di morti sul lavoro la tragedia non è personale ma anche familiare. Segna indiscriminatamente tutto il nucleo che spesso, come nella nostra storia, vive di un solo stipendio. È così che dobbiamo cogliere l’occasione ancora una volta di fermarci a riflettere. Di risentire il boato, di immaginarcelo rimbombare intorno in una galleria di terra.

Un rumore che assomiglia a molti altri nell’eco del ricordo: le cadute dai ponteggi, gli incidenti negli impianti. Un rumore che certi discorsi di circostanza, no, proprio non riescono neanche a far immaginare. Ci vorrebbero appelli più accorati in giorni come questo, discorsi con un significato e non il solito fastidioso farfugliamento burocratico e retorico. Anche il Primo Maggio, come il 25 aprile, si parte per guardare avanti. Lo si fa osservando il 35,9% dei giovani disoccupati e il 9,8% di disoccupazione globale. Lo si fa ripudiando il gergo aziendalista che vuole l’umanità come capitale, le spese di sicurezza come voci di costo, i lavoratori come fastidio. Altrimenti facciamo così: lasciamo perdere, ché i morti non si lamentano se non nelle teste di chi ha vissuto momenti tragici. Poi c’è il sole, meglio non pensare, ancora, alle cose brutte.

Penna Bianca –ilmegafono.org