Giustizia, legge, diritto: troppe volte in questa nazione riconoscere il senso pieno di certe parole diventa arduo, complesso, snervante. La percezione di un’impunità che regna sovrana a vantaggio dei potenti, di chi dispone di ogni mezzo per affrontare scorciatoie provvidenziali, dilatarne i confini, estenderne le zone franche, demolisce la convinzione che l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge sia un principio inossidabile della nostra democrazia. Convinzione frantumata anche dall’opposta manifestazione di una rigorosa e paradossale applicazione di leggi ingiuste e disumane nei confronti di chi non ha altro che se stesso, di chi non dispone dei mezzi che un sistema compiuto di diritti dovrebbe riconoscergli. Storie sempre uguali in cui la legge è dura con i deboli e debole con i forti. Un triste ripetersi a cui sembra ci si sia ormai abituati, quasi fosse una caratteristica tipicamente italiana, una vicenda “normale”, di fronte alla quale stupirsi è considerato da ingenui o sprovveduti. Eppure quella normalità perversa che è divenuta abitudine quotidiana è qualcosa che distrugge vite, ferisce sogni, partorisce sentimenti di rabbia, genera indignazione e sofferenza.

Di fronte a tutto questo non ci si può rassegnare, perché in quella rassegnazione ci sta la complicità. Essere migrante in Italia significa innanzitutto scontrarsi con l’ambiguità del diritto, parola esistente nel vocabolario italiano e nelle carte fondamentali che regolano l’ordinamento, ma poi svuotata di senso nella sua forma più importante, che è quella del riconoscimento. Non parliamo solo dei migranti appena arrivati, quelli che devono sobbarcarsi il peso di una seconda Odissea tra uffici, questure, prefetture, commissioni e altri obbrobri della mostruosa ragnatela burocratica; parliamo anche di chi in questo Paese ci vive da anni, magari lavorando in nero, ma nel frattempo contribuendo alla nostra sopravvivenza economica e sociale, tessendo rapporti personali, d’amicizia, sentimentali, che vanno al di là della condizione burocratica, delle regole di una legge vergognosa, ancora in piedi nonostante sia contraria ai valori e ai principi contenuti nella Costituzione e nelle carte internazionali sui diritti umani.

Accade così che due ragazzi nati in Italia ma di origine bosniaca si trovino rinchiusi in un Cie sulla base di un’interpretazione della legge che, solo 50 giorni dopo, grazie alle proteste di numerosi cittadini e attivisti, viene annullata e corretta da un altro giudice. E accade pure che un ragazzo marocchino, in Italia da 9 anni, durante i quali, da minorenne, ha vissuto in una comunità e ha lavorato duramente (ovviamente in nero), per un disguido, per una questione di numeri, si trovi in condizione di clandestinità e venga fermato, mentre sale gli scalini del palazzo comunale in cui sta entrando per sposarsi, e condotto in un Cie, in attesa di espulsione. Said il suo nome, Vanessa quello della sua sposina 19enne che con lui ha sfidato pregiudizi e veti, ostacoli e stereotipi. Un matrimonio fermato proprio sulla soglia del luogo in cui stava per essere celebrato. Il promesso sposo viene portato via, davanti a tutti, come un criminale, come un delinquente che ha commesso chissà quale crimine.

Il suo sogno di amore, quello che spinge a superare tutto, a sperare nel futuro, con il cuore e le braccia giovani, unendo le forze, con quel pizzico di incoscienza sana che spinge a sorridere al domani nonostante il presente e il passato. Nessun mafioso o politico potente (spesso due figure che coincidono) sarebbe stato preso nel momento delle sue nozze, con questa platealità, e portato via. Con Said le forze dell’ordine non hanno atteso, non hanno perso tempo, si sono prontamente attivate per fermare il sogno di due ragazzi e chiudere uno dei due colpevoli dentro una struttura che si scrive Cie e si legge carcere. Una storia che ricorda un film francese di qualche anno fa, “Welcome”, che racconta di un giovane immigrato giunto in Francia e deciso a raggiungere la sua amata, residente in Inghilterra, attraversando la Manica a nuoto.

Forse un film che questo governo dovrebbe vedere, anche se basterebbe guardare la realtà per capire che la modifica della legge sull’immigrazione deve avvenire in tempi brevissimi e deve porre fine a questo scempio di umanità interrotte nelle loro funzioni più nobili, quelle che attengono ai sogni, alle speranze, a quella voglia di rompere barriere che sono innaturali, incomprensibili di fronte al bisogno di identità, di riconoscimento, di diritti. Non siamo di fronte al dilemma di Antigone circa l’obbedienza alla legge del sangue (e dell’amore) piuttosto che a quella della polis, della città, dello Stato.

Qui siamo già oltre, siamo al punto in cui è lo Stato a dover scegliere se stare dalla parte dell’essere umano o da quella del gigante di pietra, carte, timbri e crudeltà che intende schiacciarlo. E la risposta deve avvenire ora. Ora che il Consiglio di Europa, giustamente, ci ritiene responsabili della morte di 63 migranti, non soccorsi e naufragati nel marzo del 2011. Bisogna rompere con il passato indecoroso di questi ultimi 14 anni e soprattutto degli ultimi 4 anni, quelli dei respingimenti e degli assassinii in mare per mano del ministero dell’Interno guidato da Maroni. È necessario invertire la rotta e cambiare prospettiva. E bisogna farlo a volto scoperto, assumendosi le proprie responsabilità di fronte a tutti.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org