Sono passati quasi 20 anni, pieni di tutto: indagini, polemiche, sorprese, depistaggi, certezze. Falcone e Borsellino: due magistrati che avrebbero cambiato la storia di questo Paese, lo avrebbero liberato da quell’intreccio violento e lurido che imprigionava la democrazia, inquinava lo Stato. E lo avrebbero liberato proprio da quegli uomini dello Stato che hanno scelto di trattare con il nemico, di farci accordi, scegliendo di sacrificare due tra i più grandi magistrati italiani per salvare l’osceno sistema di connivenze e i loro protagonisti in giacca e cravatta, divisa e gradi. La trattativa, i torbidi scenari che sono emersi, le responsabilità politiche pesantissime, i traditori hanno segnato questi 20 anni, all’interno di un clima nel quale far emergere la verità sembra quasi impossibile, come se il patto scellerato tra apparati deviati dello Stato e vertici di cosa nostra abbia previsto tutto, anche le contromosse dei magistrati che indagano per svelarlo.

La sentenza della Cassazione su Dell’Utri è l’ennesimo muro che si frappone tra il lavoro di chi cerca di fare giustizia e la volontà di chi sembra voler ancora assicurare protezioni a questo o quel personaggio. Danilo Dolci diceva che la mafia, quando Gava divenne ministro, ha rialzato la testa e che la stessa cosa avvenne quando Berlusconi andò al governo dell’Italia. Al di là delle parole, però, ciò che più conta sono i fatti: Dell’Utri, l’uomo che ha fondato Forza Italia e che definisce eroe un boss di nome Mangano per non aver parlato, è stato giudicato colpevole in primo grado e in appello, sulla base di prove e fatti specifici. C’è l’imputazione, ci sono intercettazioni, dichiarazioni di collaboratori di giustizia ampiamente verificate: eppure la Cassazione, con il pg Iacoviello e il collegio presieduto dal discusso Grassi, ha disposto l’annullamento con rinvio della sentenza d’appello.

Una decisione incoerente e dubbia per diversi motivi, a partire da alcune gravi imprecisioni presenti nella requisitoria (il cui testo integrale è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano), prima fra tutte la presunta inesistenza dell’imputazione (definita “liquida”), quando invece risulta essere precisa (concorso esterno in associazione mafiosa) e supportata dai fatti. La cosa che colpisce maggiormente è che Iacoviello avrebbe dovuto rappresentare l’accusa, mentre invece ha finito per difendere l’imputato ed esprimere giudizi pesanti sull’operato, sulla buona fede e sulle capacità dei giudici della Corte d’Appello di Palermo.

Un atteggiamento inspiegabile, anche se in molti si attendevano un esito negativo in Cassazione, visto che a presiedere il collegio vi era Aldo Grassi, allievo fedelissimo di Corrado Carnevale, il magistrato “ammazzasentenze” (ha annullato numerose sentenze di condanna a carico di boss e affiliati) nemico del pool antimafia e di Falcone, al quale, nel 1994, mosse pesantissime e squallide accuse post mortem nel corso di una telefonata proprio all’amico e fedele allievo Grassi, il quale rimase in silenzio senza nulla eccepire sulle volgarità e sulle menzogne proferite dal proprio maestro. Come attendersi giustizia da uomini di questo “spessore”? Il tentativo appare fin troppo chiaro, visto che la decisione della Cassazione mette in dubbio l’esistenza di un reato (il concorso esterno in associazione mafiosa) che rappresenta, come afferma Antonio Ingroia, “un insegnamento di Falcone e Borsellino su cui si è continuato a lavorare in questi vent’anni, producendo sentenze di condanna definitive, piccole e grandi”.

Si vuole tornare indietro, mettere in discussione uno degli strumenti fondamentali per poter colpire quelle aree di contiguità tra mafia e politica di complessa individuazione e salvare Dell’Utri e ciò che rappresenta, contando magari su una futura e non troppo lontana prescrizione. Dinnanzi a questo tentativo, alla conferma di quanto sia maledettamente complicato ottenere giustizia contro i potenti di questa nazione, mi vengono in mente due cose: le parole indignate di Salvatore Borsellino che annuncia di proseguire ed intensificare la sua battaglia di verità insieme alle Agende Rosse (e questo mi da un po’ di speranza) e le parole che mi disse Gioacchino Genchi nel corso di un’intervista rilasciata al Megafono nel 2010 (pubblicata nella sezione “Le interviste del mese” del 9 ottobre 2010).

Genchi, parlando del senatore siciliano e fondatore di Forza Italia, dichiarò: “La parte più interessante l’ho trovata proprio nel vissuto di Dell’Utri, nelle sue dichiarazioni, nei suoi contatti telefonici, nella sua vita, e la trovo nella sua ultima intervista, quando lui ribadisce, senza che rientrasse nel tema, che Mangano è un eroe. È un messaggio. Lui dice: ‘Mangano è un eroe perché in quelle condizioni in cui lui si trovava, non so nemmeno io come ha resistito’. E aggiunge: ‘Io non so se avrei resistito in quelle condizioni’. Cioè lui sta dicendo a qualcuno: ‘Guarda che se io vado in carcere non so se avrò la forza che ha avuto Vittorio Mangano di star zitto. Quindi, visto che non hai fatto ancora a sufficienza per aiutarmi, visto che probabilmente la P3 non è riuscita in toto a sistemare il processo di Palermo, ti avverto’”. Parole che oggi sanno di profezia. Una profezia che speriamo che il nuovo processo a cui la Cassazione ha fatto rinvio possa sconfessare, impedendone la definitiva realizzazione.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org