Ho sempre il mare davanti agli occhi, come si conviene a chi è nato e cresciuto in una città costiera. Me lo porto dentro e dispongo di una serie infinita di foto che ritraggono tramonti che si specchiano sull’acqua bruna e onde che ne imbiancano il profilo. Eppure quel mare davanti a cui si illuminano pensieri dolci e ricordi delicati, nasconde una crudeltà spaventosa, storie di vite evaporate come acqua, divenute nulla, mischiatesi con sabbia, pesci, scogli, oblio. Non pescatori, non uomini che il mare lo hanno sempre conosciuto, solcato, temuto e rispettato, anche nel momento in cui stabiliva il loro destino, ma esseri umani venuti da lontano, che alle onde si affidano come fossero una propaggine di quella divinità, dalle tante facce e dai tanti nomi, rimasta unica compagna dei loro sogni, delle speranze di approdare in un inferno un po’ meno tetro di quello già vissuto. Storie che ho conosciuto da vicino, tragedie che sembrano inevitabili, simbolo inespugnabile di impotenza, di ineluttabilità. Storie che i mass media troppo spesso trasformano in spettacolo del dolore, senza lasciare spazio alla rabbia, ai ragionamenti, alle responsabilità.

Un conflitto etnico dentro una barca in avaria piena di paura, stanchezza, fame e sete, dove si arriva ad uccidere per del cibo nascosto, per un canto non tollerato, per origini differenti, usando l’arma di improvvisati culti irrazionali che prevalgono in un momento di disperazione assoluta, diviene spettacolo, come fosse un film, ricordandoci quasi con toni da fiction quanta meschina e spietata violenza ci sia nell’uomo, di qualsiasi razza sia. Si rovescia un barcone ed allora ci si ricorda di quanto sia “inaccettabile” che accada questo, si raccolgono decine di dichiarazioni di chi ritiene che sia necessario intervenire, ciascuno con le proprie ricette, quasi sempre ignobili o inutili, crudeli o ingenue. Intanto, però, ogni giorno si continua a morire, in mare come in terra. Perché chi si salva dalle onde generalmente non si salva dal braccio violento di sfruttatori di ogni genere, attaccati con i denti alle vene e alla carne di chi rappresenta solo profitto, merce a basso costo e a zero diritti. Nel mare di Brindisi galleggiano anime piene d’acqua, mentre nelle campagne di Foggia e di altre decine di inferni agricoli, nei cantieri di tutta Italia annaspano vite colme di sudore e fatica.

Si muore ogni giorno, fisicamente e psicologicamente. Si muore per la violenza del mare o per la crudeltà e l’indifferenza di un Paese. Si muore tra i pesci o sotto gli alberi, con le labbra scorticate dalla disidratazione o con le ossa rotte dopo un volo da impalcature clandestine. Si muore nella dignità pestata a sangue, nelle umiliazioni, nelle schiene doloranti dopo 14 ore di raccolto, nei polmoni feriti di chi respira a bocca aperta fertilizzanti e pesticidi, nelle polmoniti fulminanti di chi dorme all’addiaccio, nei corpi stuprati in cambio di un lavoro da schiavi. Il mare non copre tutto questo, non lo dimentica, ci suggerisce la realtà e, di fronte all’anomia di chi non ha più identità ma solo un destino comune, ci permette di tenere bene a mente i nomi e i cognomi dei responsabili, di tutti coloro che hanno la coscienza sporca, sia quelli che lo sanno sia quelli che non se ne accorgono. In questo maledetto paese si chiudono gli occhi davanti alla disperazione di una parte del mondo che non può far altro che spostarsi, muoversi verso dove c’è ancora un’opportunità di vita.

Abbiamo stretto accordi con chi organizza la violenza del viaggio e ne dà una prima dimostrazione dentro carceri-lager, nel deserto, sulle rive del mare, nei porti di partenza. Non abbiamo fatto nulla, come Stato, per fermare i trafficanti di esseri umani, pur conoscendone spesso nomi, cognomi, percorsi, complicità. Mi viene da pensare alla vicenda del naufragio al largo di Portopalo (Sr) nel Natale 1996, quando morirono 283 persone. Tra loro un giovane, Syed Habib. Suo padre per lungo tempo ha chiesto giustizia alle istituzioni italiane, dopo aver ricostruito tutta la rete di trafficanti, corrotti e corruttori, complici. Ha ottenuto silenzio, indifferenza. Le autorità italiane non si sono mai interessate a quello che accadde. Né i governi di destra né di sinistra. Mai. Così come furono pochi i giornalisti e i giornali a credere alle testimonianze dei sopravvissuti.

Questa è l’Italia. Un Paese circondato dal mare, che del mare non sa ascoltare la voce, che sussurra bellezza e vita ma che urla anche morte e ingiustizia. Uno Stato che non accoglie, ma raccoglie esseri umani e li deposita nei luoghi oscuri dello sfruttamento e dell’emarginazione. La politica è concentrata solo sulla crisi e sulle questioni economiche e finanziarie, non si vedono spiragli per quel che riguarda l’immigrazione. E chi  mostra un po’ più di interesse al tema continua a ragionare di idiozie, come flussi, quote, limiti. Nessuno che abbia il coraggio di dire che non esistono freni possibili ad un fenomeno immenso, storico, mondiale. Che invece di pensare a strategie “contenitive”, sarebbe più logico attrezzarsi culturalmente e socialmente per rendere più equa e giusta la convivenza, attivarsi politicamente per sollecitare un intervento globale di redistribuzione della ricchezza e di lotta contro il traffico di esseri umani.

Guardare avanti, approfittare della crisi del sistema capitalistico per rivedere tutto, ragionando non di numeri, di cifre, di quote, ma di persone concrete. Non da ospitare o accogliere, ma da accompagnare e con cui camminare insieme sulla stessa strada. Quello che oggi fanno alcune associazioni, qualche parrocchia, singoli cittadini. Perché per fortuna in questo Paese non sempre vertici e base si somigliano. Hanno due modi diversi di guardare il mare.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org