Cosa c’è realmente negli occhi di quei ragazzi che a 20 anni non sognano più? Me lo sono chiesto spesso, ogni volta che ho avuto la possibilità di incontrarli o di parlare con molti di loro, nelle scuole come in occasioni di conferenze o dibattiti o presentazioni. La mia risposta è sempre la stessa: c’è il fallimento di un modello sociale, la debolezza della cultura e dei suoi insegnamenti di speranza, c’è una fragilità che si diffonde come un virus e sembra trasformarsi in coma irreversibile Per carità, ognuno può scegliere di non fidarsi più dei sogni, di non illudersi. Ma non a 20 anni, quando la speranza è un diritto, un bene vitale. Ed allora provi a spiegare che non devono arrendersi, che il loro futuro dipende anche da loro, che non devono aspettarsi qualcosa ma pretenderla, conquistarla. Parli, racconti di lotte e denunce, citi esempi, modelli da seguire, storie di uomini e donne che non hanno mai mollato, nemmeno dinnanzi alla prospettiva di sacrificare la propria vita.

È successo ancora una volta, nel corso di un incontro in una scuola di Palazzolo, dove si parlava di mafia, attraverso testimonianze di impegno civile e di resistenza. Una sola domanda, netta, chiara: “Ci inviti a lottare, a sentire dentro di noi la forza di scegliere la giusta parte, per cambiare questa terra. Ma, poi, sei il primo ad essere andato via. Non è una contraddizione? Non la senti come una sconfitta?”. Parole legittime, domanda pertinente. Cosa rispondere a chi non conosce il tuo percorso di vita, le ragioni della tua partenza, il grado di amore che hai donato ai tuoi sogni ed alla tua isola, alla sua gente, all’idea di vedere splendere il sole e soffiare il vento senza avvertire più il retrogusto amaro e l’ombra fitta dell’ingiustizia? Puoi dire mille cose, puoi spiegare che hai aspettato 32 anni prima di andar via, di cambiare, che non hai mai smesso di impegnarti o di amare la tua terra, nonostante hai conosciuto bene il sapore marcio dell’isolamento, dell’indifferenza, il peso della stanchezza di fronte all’indolenza di chi avrebbe dovuto muoversi, sbracciarsi e non lo ha fatto.

Puoi dire tutto, ma poi pensi che rischi di dare giustificazioni che non hanno alcun senso. Pensi che non c’è nessuna sconfitta, perché andare via, quando intorno non c’è nulla, spesso rimane l’unica soluzione. Non una fuga, non un viaggio di sola andata, ma una necessità, l’esigenza di rigenerarsi, di respirare uscendo da una camera stretta e senza finestre dove l’aria comincia ad essere viziata. Pensi che non è possibile assumersi il carico di sconfitte che non ti appartengono. Ricordi le facce che odi, quelle ipocrite che ancora ti sorridono o ti stringono la mano, le facce di chi ha taciuto, ha fatto finta, si è defilato, i volti di chi ti ha accusato o emarginato, e pensi che sono loro i veri sconfitti, battuti da una vita di compromessi e di convenienze, di tornaconti e di calcoli, da cui non ricaveranno nient’altro che la soddisfazione di un’esistenza tranquilla, comune, “borghese”, annacquata.

A quel ragazzo così giovane, che successivamente mi ha rivelato di non credere che qualcosa possa cambiare e che il male trionferà sempre, vorrei regalare tempo da sfogliare alla ricerca delle differenze che definiscono i contorni della storia del mondo, dei cambiamenti che hanno attraversato con rapidità estrema tutti i settori della società, nel giro di pochissimi anni. Alla sua età dovrebbe essere animato dall’illusione, dagli ideali, dalla convinzione di poter rivoltare il pianeta, dovrebbe sentire i muscoli del proprio corpo pulsare di rabbia, pronta ad abbattersi sulle ingiustizie, sui soprusi, sulle oscene logiche di sfruttamento che ingabbiano milioni di persone. Dovrebbe avere l’incoscienza che divora ogni paura. La delusione è qualcosa che al limite viene dopo e ci farai i conti.

Guardandolo, la rabbia mi spingerebbe a urlare che è una bestemmia, a 20 anni, quando ancora non hai nemmeno provato ad alzare una mano per dire “presente”, addebitare sconfitte agli altri e prefigurare scenari immutabili. Proprio oggi che, in giro per il mondo, centinaia di migliaia di ragazzi stanno mettendo in crisi il sistema economico mondiale, le sue disparità, le sue discriminazioni. Poi, penso a quegli occhi tristi ed a quella fragilità, a quella percezione di impotenza che, soprattutto, nel nostro Paese si è diffusa pericolosamente, come effetto di un modello politico e culturale che esalta l’arroganza del potere, che amplifica la forza e la dimensione drogata delle maggioranze. Come se le minoranze fossero monche, inermi, dormienti.

Una percezione che, con tutta probabilità, attraversa dolorosamente le due metà del cuore di un ragazzo, quella generosa che punta a sperare e quella introversa e rassegnata che punta a rinunciare, spostando tutto il peso sulla seconda. Non è colpa sua, non è colpa loro, ma nostra, perché non riusciamo a far sentire il rumore di un mondo in fermento, di un’umanità in movimento che scalpita, freme, si agita e prima o poi farà crollare il castello di sabbia su cui qualcuno cerca di edificare il nostro avvenire utilizzando mattoni di fango.

Davanti agli occhi di quel ragazzo ho sentito l’assenza di quelle sponde che una volta ti costringevano a guardare avanti, ti formavano, ti mostravano che prima ancora di credere in qualcosa dovevi impegnarti, camminare, conoscere. Ti davano una direzione. Forse è ciò che manca o forse semplicemente dietro il pessimismo c’è l’alibi di chi ha paura, di chi sa che partecipare al cambiamento richiede scelte dure e tempo e fatica. Probabilmente basterebbe un piccolo segnale di speranza o una piccola vittoria per cancellare questo pessimismo. Perché dentro gli occhi di un ragazzo di 20 anni non può morire un sogno, né agonizzare un’illusione.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org