Sotto i simboli del potere economico e finanziario, a Roma, New York, Madrid, Atene, c’è una massa di individui, uniti dall’indignazione, che è un miscuglio di stanchezza e rabbia. Non una lotta di classe, ma una battaglia di sopravvivenza e di recriminazioni legittime. Non una giornata di sciopero per farsi sentire e poi tornare a casa a rinchiudersi nella quotidiana cappa di frustrazioni, ma una protesta ad oltranza di chi rabbia e frustrazione li vuole sbattere in faccia a chi è chiamato a decidere, a manovrare, a sancire la salvezza o meno di un sistema economico che è mondiale ed è fatto di rapporti ed equilibri in via di disfacimento. Le banche, causa principale di questo crollo, sono il simbolo fisico dinnanzi a cui mostrare la faccia reale del popolo di precari, disoccupati, sfruttati o semplicemente cittadini che non ce la fanno più a vedere un Paese in ginocchio. Le stesse banche da cui dipende parte della salvezza del sistema.

Una catena circolare dentro cui si trova il vuoto di una politica che, nella sala più chic della nave, continua a giocare a poker mentre l’acqua riempie la stiva. E al tavolo da gioco ci stanno seduti tutti, anche quelli che sembrano voltare lo sguardo verso le onde, preoccupandosi dei naufraghi. L’Italia vera, quella della lotta quotidiana per campare, è in continuo movimento, con tante forze coinvolte che si stanno studiando, discutono, si sfiorano, spesso si avvicinano per preparare il dopo Berlusconi, che ormai sembra davvero vicino, nonostante la fiducia risicata frutto di chissà quali “scambi”. L’agonia del Caimano, nonostante tutto, sembra finita ed i suoi eventuali colpi di coda non spaventano più, perché ha perso forza e consenso.

Ma cosa si muove davvero nei tanti settori della società italiana? Quale sarà l’alternativa che uscirà vincente da questa situazione? Lo scandaloso spettacolo di passi, passetti e guerre intestine che va in scena dentro il Pd non promette nulla di buono. La sensazione è che, approfittando della fine annunciata di un lungo sistema di potere, qualcuno voglia semplicemente operare una sostituzione, senza che ciò sia preceduto da un reale cambiamento degli schemi, delle logiche, delle facce e delle nefaste consuetudini. Non è solo una questione morale, cioè di onestà nei comportamenti; il punto centrale è sviluppare e far vincere un nuovo modo di pensare il Paese, una mentalità che spinga verso la modernità, verso il cambiamento, che sancisca il rispetto delle regole democratiche e del territorio in cui si vive e si governa come principio ispiratore dell’attività istituzionale.

Guardando attentamente ai partiti ed alle mosse strategiche che stanno preparando l’uscita da questo stallo insopportabile, l’impressione è che si pensi esclusivamente alle alleanze, ai numeri, ai compromessi più utili e possibili per vincere le prossime elezioni. Nessuna attenzione viene realmente prestata alle rivendicazioni di quella massa di indignati, stanchi ed incazzati, i quali hanno carne ed ossa, polmoni e cuore, esigenze quotidiane ed urgenti.

La sensazione è che il vecchio esercito in giacca e cravatta che da decenni marcia tra i banchi del Parlamento abbia esclusivamente il pensiero fisso di come uscire al meglio da questo scontro: da una parte, chi è al governo, per paura di uscire dal palazzo ed incontrare la gente, guardarla in faccia e subirne l’ira, preferisce attaccarsi alla poltroncina e, dinnanzi alle imbarazzanti e tangibili mancanze, affidarsi al tanto caro “negare sempre, anche l’evidenza”; dall’altro, le opposizioni, prive di una vera fisionomia programmatica e strutturale, provano a mettere insieme la soluzione numericamente migliore per subentrare nella gestione del potere, pur senza un’idea circa la possibilità di trovarsi d’accordo sulle ricette da utilizzare per il bene del Paese.

Sotto il palco di questa triste contesa, si trova l’Italia, con le scarpe consumate dei giovani in fuga e gli occhi umidi di chi non sa più cosa fare per potersi permettere ciò che dovrebbe spettare ad ogni persona: il diritto di  sognare il proprio futuro. Mentre sul ponte si misurano le convenienze particolari, nella stiva l’acqua è già altissima e per uscirne non bastano più le parole di auto-incoraggiamento o le strategie circa eventuali sistemi di salvataggio. Non è più il momento dei convegni, delle riunioni affollate dove un gruppetto di conferenzieri ripete ossessivamente le stesse cose ad un pubblico chiamato solo ad applaudire.

Questo è il momento di fermarsi sulle strade, dinnanzi alle banche, ai palazzi istituzionali, e non muoversi più, non arretrare di un millimetro, convincere anche le forze dell’ordine a deporre caschi e manganelli e schierarsi al fianco dei loro concittadini, con cui condividono la precarietà. Non muoversi fino a quando gli usurpatori del nostro futuro non annuncino di ritirarsi a vita privata, sperando che ciò avvenga prima che accada qualcosa di tragicamente irreparabile. Il tempo è scaduto.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org