Alcune sere fa, il procuratore di Milano, Armando Spataro, era sul palco dell’Auditorium San Fedele, a due passi dal Duomo, a presentare il libro del collega della procura di Torino, Paolo Borgna, dal titolo Clandestinità (e altri errori di destra e di sinistra). Una presentazione inserita nell’ambito di una serata dedicata all’immigrazione, aperta dalle testimonianze degli studenti stranieri di Asinitas Milano (a cura di Asnada Onlus) e dell’Associazione Amici della Casa Marta Larcher, e seguita dalla proiezione del documentario “Omaggio a Lampedusa” di Dagmawi Yimer, Giulio Cederna e Fabrizio Barraco. Un documentario ricco di spunti di riflessione, di emozioni e soprattutto di verità. Appena riaccese le luci della sala, inizia la presentazione del libro. Sul palco ci sono Spataro, Borgna e lo storico Alessandro Triulzi. Nello scrivere questa mia riflessione mi vorrei rivolgere proprio al procuratore Spataro, persona che stimo per le sue battaglie di giustizia, per il coraggio con cui svolge il proprio lavoro e per l’analisi lucida, esposta nel suo primo intervento, della situazione politica attuale e del modo crudele e ingiusto con cui il governo di questo Paese ha gestito e gestisce il fenomeno migratorio.

Caro procuratore,

ho ascoltato con attenzione le sue parole ed ero pronto ad applaudire, ma ad un certo punto il suo ragionamento, che aveva l’intento di introdurre l’intervento dell’autore, mi ha lasciato perplesso, quando ha parlato di regole per fermare “quelli che vengono per delinquere”. Ero già stranito dall’idea che un documentario così bello e interessante, umano, vivo, fosse seguito da un dibattito tenuto da due magistrati e imperniato su un ragionamento legato a regole, leggi, quote, flussi, contratti di lavoro e soprattutto a questo continuo collegamento tra immigrazione e sicurezza, tra immigrati e delinquenti. Ne avrei fatto volentieri a meno, avrei preferito che a parlare fosse un rifugiato (visto che l’incontro si è svolto proprio in occasione della giornata mondiale del rifugiato).

Avrei trovato più giusto che si parlasse della condizione di svantaggio che interessa milioni di esseri umani, che si riprendesse la questione dei sogni, delle aspettative che gli studenti stranieri, con semplicità disarmante, avevano esposto e raccontato in apertura di serata, sfidando l’emozione e le insidie della lingua italiana, cercando di farsi capire, di raggiungere non solo le orecchie ma anche il cuore dei presenti. Ad ogni modo, credevo che il libro di Borgna mettesse al centro tali temi e li trasportasse nel dibattito, mi fidavo di quanto da Lei affermato in apertura, sulla immensa cultura del suo collega (che ovviamente non metto in discussione, ci mancherebbe). Invece, caro procuratore, se non fosse stato per Alessandro Triulzi, quel dibattito sarebbe risultato sterile e soprattutto molto pericoloso, in quanto avrebbe fatto emergere un punto di vista che, data la credibilità assoluta di chi lo esprimeva, sarebbe stato preso per buono da chi, tra i presenti, magari non aveva e non ha piena coscienza di ciò che è l’immigrazione.

Ho ascoltato un’ora di discussione in cui centrale è stato il principio delle regole, dei doveri, degli obblighi. Il suo collega Borgna ci ha parlato di un’apertura che non può essere illimitata, di una accoglienza che non può essere infinita, ha parlato di rischio di invasione, di impronte digitali. Parole già sentite, purtroppo, mille volte. Non solo, ma ha commesso un peccato grave, quello di non volersi esprimere sulla giustezza o meno del reato di clandestinità, affermando al contempo che si tratta comunque di una misura che non è stata dichiarata incostituzionale e che è prevista anche in altri Stati, con l’aggiunta che in Italia la pena è più leggera, perché non prevede l’arresto diretto, ma solo una sanzione (vero, peccato però che è dovuta intervenire la Corte di Giustizia Europea a chiedere la disapplicazione dal nostro ordinamento della pena detentiva da 1 a 4 anni, prevista per lo straniero beccato in condizione di inottemperanza dell’ordine di espulsione).

Infine, ha proposto una formula legislativa (quella che prevede la possibilità di richiedere visti di ingresso di 5 o 6 mesi, legati ad un contratto di lavoro, presso i Consolati nei paesi di provenienza), che è il segno dell’assoluta lontananza dell’autore del libro dai contesti e dalle circostanze entro cui si sviluppa la scelta di emigrare. Giovani che scappano dalla guerra e dalla persecuzione (quei rifugiati a cui Borgna non ha fatto il minimo accenno), ma anche altri che vanno via in cerca di un’opportunità di vita migliore, scelta legittima di ogni essere umano. Nessuno di loro passa dai consolati. Alcuni nemmeno sanno dove si trovano. Fuggono, attraversano il deserto e le situazioni peggiori, scommettono su sé stessi. La proposta di Borgna è il prodotto di un pensiero “borghese” che vive anni luce lontano dal fenomeno che pretende di regolare. Per pura informazione, caro procuratore, vorrei anche aggiungere che già le associazioni di categoria del mondo dell’agricoltura hanno stipulato un accordo con 17 Paesi extra Ue per il rilascio, presso i Consolati, di visti periodici per i lavoratori stagionali.

Un fallimento. Testimoniato anche dal perpetuarsi del triste fenomeno del caporalato e dello sfruttamento nelle campagne del Sud e del resto d’Italia. Insomma, in quell’Auditorium, il rumore di quelle parole, di quei concetti, strideva enormemente con le parole e con i contenuti della prima parte della serata. Solo Triulzi ha saputo fermare quella cascata di pericolose distorsioni della realtà. Regole, obblighi, doveri: questo chiediamo continuamente a chi viene in questo Paese, in quanto straniero, “diverso”, altro. Ma quando avremo la civiltà di assicurare contemporaneamente diritti, in quanto esseri umani? Continuiamo a pretendere dagli immigrati legalità, replicando all’infinito quella urticante e falsa (lo dicono i dati) equazione tra immigrato e criminale. Quale legalità? Una condizione amministrativa irregolare rappresenta una minaccia non per noi, ma per i migranti, in quanto diventa opportunità di sfruttamento per i tanti faccendieri, negrieri, colletti sporchi, assolutamente italiani, che sulla “clandestinità” costruiscono il proprio profitto.

Cominciamo a parlare della necessità di liberare gli immigrati  dalle catene dell’irregolarità, cominciamo ad occuparci seriamente di chi li sfrutta, e nei dibattiti smettiamola di legare sempre il concetto di legalità ai migranti, farcendolo con altre nefaste suggestioni, come quella del “pericolo di invasione”. Interroghiamoci piuttosto sulle conseguenze future di un sistema che costringe centinaia di migliaia di persone ad avere come sogno principale un pezzo di carta, un rigurgito della burocrazia. Se pensiamo che il mondo possa migliorare lasciando che giovani di estremo valore e di immense qualità, i quali hanno messo in gioco sé stessi affidandosi alla speranza, una volta giunti in Italia riducano il loro sogno ad un documento, ad un timbro, ad una sigla su uno squallido foglio, allora davvero il nostro futuro è destinato a soccombere. E vinceranno i burocrati, da un lato, e i parolai, dall’altro.

Caro procuratore, chi scrive certi libri dovrebbe andare oltre le storie che raccoglie per il suo saggio e prima di scrivere dovrebbe girare l’Italia, i centri di permanenza, i campi di pomodoro, di patate, di fragole, gli agrumeti, i cantieri edili, le comunità dove i ragazzi provano a ricostruire le loro speranze, i loro sogni. Prima di scrivere bisognerebbe sapere che non esiste alcun rischio di invasione, che i numeri italiani sono ridicoli rispetto al resto d’Europa, che quei numeri sono persone, esseri umani che non possono essere trattati come procedure da protocollare. Prima di scrivere per affrontare tematiche che ricadono sulla pelle di milioni di persone, bisognerebbe fare innanzitutto appello alla propria sensibilità. Perché anche dietro la legge e i cavilli, come Lei nel suo percorso professionale ha dimostrato, possono trovare spazio la sensibilità ed il rispetto per gli altri.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org