Forse è stato qualche decimo di febbre o la stanchezza a far scendere un velo di angoscia su una giornata maledettamente normale. O forse è stato ascoltare per l’ennesima volta un esponente del Pdl parlare a vanvera, dopo aver attivato, come di consueto, la puntina mal funzionante di un vecchio giradischi, fuori moda ma negli ultimi anni sempre efficace, a quanto pare, su una parte del Paese. Di sicuro le stridule blaterazioni di La Russa, Lupi, Stracquadanio, Santanché, Salvini, Letizia Moratti e tutta la compagnia degli orrori, al massimo mi creano irritazione o rabbia, anche se ultimamente arrivano quasi a farmi compassione, perché sembrano davvero i marinai di una nave in fiamme che provano a sparare con le pistole inceppate mentre colano a picco. Suscitano un preoccupante senso di pietà umana che è meglio metter da parte subito, perché non si può aver pietà degli incubi. No, quell’angoscia è dovuta a qualcosa di molto più grande di una contingenza politica, di una durissima campagna elettorale o del fastidio per un ceto politico imbarazzante.

Qualcosa che attiene alla vita di milioni di persone in tutta Europa, attiene al futuro di questa parte di mondo. L’angoscia e la stanchezza sono le compagne di viaggio quotidiane di chi galleggia nello stagno del presente ed è costretto a farci l’abitudine, ad adattarsi, combattendo ogni giorno la propria battaglia con se stesso, le proprie aspirazioni legittime, la voglia di sedere su un arcobaleno e non su una pozza stretta fatta di dolorosa accettazione. E non ti basta l’indignazione, non ti bastano le piccole lotte quotidiane per respingere i tentativi di spremerti ulteriormente, fino alla fine, perché tanto non hai scelta, se non di tornare indietro, di non avere nemmeno quel poco che sei riuscito ad avere. Generazione senza futuro. Schiavi dentro e fuori che urlano nel buio, mentre a palazzo si gioca al dottore ed all’infermiera, mentre sui tavoli del mondo il “nostro inviato”, un vecchio squilibrato con manie di onnipotenza, mette al centro i suoi problemi personali, chiedendo aiuto, follemente, all’ospite più potente.

Esterrefatto, guardo quella faccia contrita, di plastica nociva, che muove le labbra e, con il fare tipico dello scemo del paese che si avvicina per chiederti una monetina per il caffè, parla ad Obama dei propri problemi e delle proprie manie, quasi implorando aiuto, fuori luogo, fuori da ogni logica. E lì, sentendo quello che avviene in Spagna, che è già avvenuto in Grecia, per non parlare dei “gelsomini” del Nord Africa e del mondo arabo, dopo la speranza ti sale un retrogusto amaro, il solito, quello di milioni di giovani competenti, talentuosi, qualificati, preparati, svegli, ma esiliati, frustrati, umiliati, condannati a vivere nel presente. Il popolo dei precari, precari non solo del lavoro ma anche della vita, costretti a scappare, ad emigrare o a rassegnarsi. Sfruttamento, c’è solo quello per noi, in ogni ambito. Siamo il popolo dei contratti a progetto, spremuti fino all’osso e sottopagati, a lavorare per il profitto di chi vive negli agi, nel benessere pieno, senza che ciò determini una stabilizzazione od un aumento.

Perché? Perché fino a quando accetteremo tutto ciò, in silenzio, in nome di un’occupazione che comunque ci garantisce la sopravvivenza quotidiana, a loro converrà. Il loro profitto è massimo. Rinunciare ai propri diritti ha un prezzo solo per chi vi rinuncia e non per chi li nega. Accontentarsi di quel piccolo pezzo di pane del presente, ci permette solo di sfamarci oggi, non di pensare a domani. Famiglia, figli, casa, certezze: utopia pura per quelli come noi. Il futuro è solo un tempo verbale o una dimensione immaginaria, che sfuma mentre gli anni passano e sembrano esser stati sempre e solo al presente. Maledetto vizio di pensare al mondo intero, ai miei tanti coetanei, a quelli più giovani di me che a 18 anni mi dicono che i sogni sono solo bugie. Angoscia che avvolge ogni pensiero, stanchezza fisica, senso di vuoto: un buco nero circondato da mura spesse, dove ogni suono diviene sordo e inquietante.

Tunisi, Madrid, Il Cairo, Atene sono melodie, accenni di esaltanti sinfonie che giungono dalle rive del Mediterraneo, quello stesso su cui (come si sostiene da anni) dovrebbero aprirsi i più floridi scenari economici di questo nuovo millennio. Accenni, speranze, la consapevolezza che qualcosa stia bollendo, dal basso. Rabbia, necessità, paura per un futuro che è sempre troppo lontano. Roma, Milano, Napoli, Palermo, Bologna, Catania: quando? Quando ci renderemo conto che i No, le rivendicazioni, l’andare in piazza ad oltranza con il rischio di perdere quel lavoro da schiavo che ti ritrovi, la solidarietà sociale, la resistenza, il rifiuto della rassegnazione e della lamentela sterile e fine a se stessa, sono le uniche strade percorribili per riprendere in mano le nostre vite? Non è il tempo della moderazione, dell’attesa, ma della scelta. Bisogna assediare le piazze, pacificamente, riempiendole non di sassi ma di idee, rivendicazioni, parole, anche dure, durissime, nette, liberatorie, ma che siano parole di cui si respiri l’importanza.

Bisogna partire dai posti di lavoro, laddove manca un sindacato, un contratto che ci garantisca, un controllo sul rispetto dei diritti. Partire da lì, dal non cedere, dal coraggio di affrontare i capi a testa alta, di rifiutare il quotidiano calpestio delle nostre prerogative, di non ringraziare per ciò che ci è dovuto. Bisogna avere il coraggio di rifiutare il sistema, anche quando questo ci sembra comunque più comodo dell’esilio. Unirsi e farlo davvero, perché le piazze sono ancora libere, hanno tanto spazio per ospitare gambe, voci, striscioni, lenzuola, idee, fischi e applausi, confronti e proposte.

Di chi è la colpa di questo vuoto, di questo maledetto senso di angoscia che ci impiega solo un attimo a tramutarsi in rabbia? Non guardate troppo lontano, la colpa prima di tutto è di ognuno di noi, soprattutto di chi scrolla le spalle e si chiude dentro un odioso “tanto non cambierà nulla, non servirà a nulla”. Nordafricani ed arabi, spagnoli e greci ci stanno suggerendo speranza, ci stanno mostrando che forse cambiare è davvero possibile. Anche in Italia? Sì, forse anche in Italia. Basta solo essere ancora capaci di sostituire l’angoscia con la rabbia. Basta solo essere ancora capaci di provare indignazione.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org